venerdì 15 febbraio 2013

Intervista a Gaia Vianello, sceneggiatrice del documentario "Aicha è tornata"

Aicha è tornata , documentario diretto da Juan Martin Baigorria e Lisa Tormena, propone le testimonianze di alcuni migranti marocchini che, dall'Europa, vengono rimpatriati o per loro volontà e senza accompagnamento oppure con un percorso assistito in quanto espulsi; si parla, dunque, di "migrazione di ritorno". I registi hanno raccolto le parole (ma anche i silenzi, le lacrime, i sorrisi) soprattutto di donne, giovani e meno giovani, molte delle quali nate in Francia e in Italia che, per vari motivi, sono tornate in Marocco.
Gaia Vianello ricorda che il film è autoprodotto e si inserisce nell'ambito di un progetto di reinserimento socio-economico degli immigrati di ritorno. Uno dei tanti problemi da affrontare è stata la quasi totale assenza da parte delle donne alle attività proposte, nonostante la migrazione femminile dal Marocco sia quasi pari a quella maschile. Si è posta, quindi, l'esigenza di indagare a fondo il fenomeno per conoscere meglio queste donne.


Cosa si intende con l'espressione "fenomeno migratorio di ritorno"?

Le migrazioni di ritorno sono uno degli aspetti del percorso migratorio e possono essere di diverso tipo: transitorie o permanenti, volontarie o forzate. La distinzione fondamentale è dunque quella tra ritorni e rimpatri, ovvero tra l’intenzionalità dei primi rispetto all’involontarietà e coercizione dei secondi.
Dal punto di vista del migrante che vive questa esperienza, il ritorno in patria può essere percepito e vissuto come reinserimento e in certi casi miglioramento della propria condizione nel paese d’origine, oppure come perdita del proprio status precedente la migrazione.
Rispetto alla comunità d’origine, l’esperienza del ritorno può vedere nel migrante la figura dell’eroe, ovvero colui che avendo avuto successo all’estero veda riconosciuto dalla famiglia e comunità il proprio rientro come avanzamento economico, sociale e culturale. Ma il ritorno può anche rappresentare un fallimento del progetto migratorio, nel caso in cui le difficoltà socio-economiche incontrate all’estero non abbiano permesso la realizzazione del successo sperato.
Nel caso di “Aicha è Tornata” vengono trattate le migrazioni di ritorno femminili in una specifica area del Marocco, quella di Tadla Azilal e Chaouia Ouardigha, che rappresenta il maggiore bacino migratorio dal Marocco verso il sud dell’Europa, in cui la spinta migratoria è data prevalentemente da motivi economici e di miglioramento della qualità della vita. La maggioranza dei rientri in quest’area non sono volontari nel senso stretto del termine, ma nella maggior parte dei casi dovuti o ad espulsione o a motivi indipendenti dalla volontà dei migranti di ritorno, che possono andare dalle difficoltà economiche, alla difficoltà d’integrazione o a problemi familiari.

Quali sono le attuali politiche europee rivolte alle persone che hanno deciso o sono state costrette a rimpatriare? E cosa si potrebbe migliorare ?

Nell’agenda della gestione politica dei flussi migratori il tema dei ritorni rappresenta spesso una questione centrale, obbiettivo per molti governi, in particolare per quello che riguarda il ritorno dei migranti illegali.
L’Italia e l’Unione Europea hanno avviato un programma per i rimpatri assistiti, implementato dall’OIM e da diverse ONG, che permette ai migranti che desiderano o sono costretti a tornare in patria di avere un’assistenza per l’organizzazione del ritorno, per il reinserimento socioeconomico una volta rientrati, oltre ad un incentivo economico per coprire le spese di viaggio.
Il Programma d’Azione sul ritorno sostiene sia i ritorni volontari che forzati di cittadini di Paesi terzi, coprendo tutte le fasi della percorso: quella antecedente la partenza, il ritorno stesso, il ricevimento e la reintegrazione del Paese di destinazione.
Sulla base della mia esperienza lavorativa personale, questi programmi hanno una loro utilità per i servizi di assistenza che offrono, ad esempio il sostegno legale o psicologico nel paese d’origine, rimangono tuttavia deboli nell’affrontare la causa principale per cui i migranti hanno deciso di lasciare la loro patria, ovvero il lavoro. Trattandosi di programmi a breve termine non riescono ad avere un impatto efficace sul reinserimento lavorativo dei migranti e questo rischia di innescare un circolo vizioso che porta il migrante rientrato a voler partire nuovamente.
Da questo punto di vista sarebbe necessario pensare a programmi sul medio e lungo periodo, che possano prendere in considerazione tutte le diverse tappe del percorso migratorio, con un particolare accento sulla prevenzione e sensibilizzazione, oltre alla creazione di possibilità alternative nei paesi d’origine, che possano sostituirsi alla necessità di cercare altrove condizioni migliori di vita.

Tra le storie che hai riportato nel documentario, qual è quella che ti ha colpito di più?

Le donne protagoniste del documentario sono tutte persone che ho conosciuto attraverso il mio lavoro di cooperante in progetti di reinserimento socio economico dei migranti di ritorno e con le quali sono riuscita ad instaurare, nel corso dei due anni trascorsi a Khouribga e Beni Mellal, un rapporto di fiducia reciproca.
Le loro storie sono per diversi aspetti tutte molto toccanti. Ne riporto tuttavia una in particolare, che non abbiamo potuto inserire nel documentario perché non abbiamo avuto il consenso della famiglia della giovane donna.
All’inizio della mia ricerca sulle migrazioni di ritorno femminili una delle prime donne ad essermi stata presentata è una ragazza di sedici anni, Amal.
Amal parla un perfetto italiano con accento romagnolo, è andata in Italia con i genitori a soli due anni, a Faenza, dov’è cresciuta, ha frequentato le elementari, quindi le medie per poi iscriversi al liceo.
Quando compie quindici anni il padre decide di riportare la famiglia in Marocco, perché sente che le sue figlie stanno perdendo la cultura d’origine. Amal e la sorella riescono a convincere i genitori a lasciarle lì, almeno per poter finire il liceo. Tuttavia dopo pochi mesi le due ragazze si rendono conto che da sole è troppo dura, non riescono a studiare e mantenersi e sono dunque costrette a far ritorno a Beni Mellal.
Amal parla e scrive perfettamente in italiano, ma l’arabo lo parla male e soprattutto non sa né leggerlo né scriverlo, così non viene ammessa al liceo. Finisce dunque a lavorare nel piccolo negozio di alimentari dei suoi genitori, continuando a sognare di poter tornare dai suoi amici a Faenza.
Dopo la prima intervista ho perso di vista Amal e sono tornata a trovarla solo dopo due anni, con l’idea di proporle di essere una delle protagoniste del documentario una collega dell’ong marocchina con cui lavoravamo mi ha però sconsigliato di contattare la famiglia e andarla a trovare per evitare problemi con il padre, raccontandomi che l’anno precedente i genitori le avevano combinato un matrimonio con un uomo di quarant’anni che abita nelle campagna vicino a Beni Mellal, dove Amal adesso si è trasferita.