martedì 19 marzo 2013

A teatro per Una cena armena



Da un anno è in scena, nei teatri italiani, lo spettacolo intitolato Una cena armena, a cui sarà possibile assistere dal 21 al 23 marzo al Teatro Tieffe-Menotti di Milano.
Il testo della pièce - prodotta da Màlbeck Teatro e Compagnia della Luna - è scritto da Paola Ponti con la consulenza dell'artista armena Sonya Orfalian autrice del volume “La cucina d'Armenia. Viaggio nella cultura culinaria di un popolo”, contenente un centinaio di ricette, frutto di una lunga ricerca storica ed etnografica.
La regia è di Danilo Nigrelli, sul palco insieme a Rosa Diletta Rossi. Sono loro due, infatti, i protagonisti: un uomo, Aram e una ragazza, Nina.
Una tempesta di neve costringe la giovane donna a chiedere rifugio nella casa dell'uomo, forse un caso o forse no. Ma quell'abitazione, all'apertura del sipario, è disabitata. Un tappeto di abiti, disposti per terra con cura; corde appese a tiranti colorati che pendono dall'alto a diverse altezze; come cadono dall'alto anche alcune valigie, una è aperta, ma anch'essa vuota. 
Il vuoto è proprio il tema principale del racconto, un vuoto che i due personaggi cercano di riempire, a fatica, con i loro ricordi, con la loro irrequietezza. Un vuoto lasciato dal genocidio del popolo armeno per mano dei turchi, nel 1915. Un pezzo di storia relativamente recente, che molti ancora non conoscono e largamente rimossa dalla diplomazia internazionale.
La notte sogno di cucinare prelibatezze e di portarle nel deserto, dove facevano camminare i prigionieri”, dice Aram; “Gli uccelli. Qualcuno c'era a vegliare i morti. Le rondini hanno visto”, dice Nina: sì, perchè Aram e Nina, in realtà, hanno un Passato comune: lui vuole riportarlo alla Memoria e lei è desiderosa di capire. Lui, figlio della diaspora armena e lei, sua nipote.
Il racconto è diviso in quadri intervallati da brevi stacchi musicali; il testo è coraggioso e viene accompagnato da una regia coinvolgente che restituisce la tensione emotiva delle due generazioni a confronto. I dialoghi frammentati sottolineano la paura di riaprire le ferite, ma insieme, l'urgenza di guardare l'orrore per non ripeterlo.