lunedì 13 maggio 2013

Una ragazza americana e la pace in Medioriente


Aveva ventitre anni, Rachel Carrie. Era una ragazza come tante altre: problematica, idealista, diretta, gran fumatrice. Un giorno decide di lasciare la sua città, Olympia nello Stato di Washington, per andare a lavorare a Rafa, sulla striscia di Gaza, come membro dell'International Solidarity Movement.
Il 16 marzo 2003 Rachel fa scudo con il proprio corpo per impedire la demolizione di una casa palestinese e viene schiacciata da un bulldozer dell'esercito israeliano. Il suo sacrificio è diventato simbolo di una pace ancora lontana.
Dal 14 al 16 maggio 2013, presso il Teatro Sala Fontana di Milano, verrà messo in scena lo spettacolo dal titolo Mi chiamo Rachel Carrie, per la regia di Alessandro Fabrizi e Cristina Crippa, qui anche attrice protagonista.
Il palco è spoglio: dal graticcio scendono pietre sospese, come subito dopo una deflagrazione. Gli oggetti appartenuti a Rachel - il computer, il diario, lo zaino - parlano di lei: della sua infanzia di bambina qualunque, della sua adolescenza vissuta con uno sguardo attento e critico sulla realtà, della scuola, dei primi amori e poi della scelta dell'impegno civile.
Cristina Pina recita con semplicità, ma - con lo scorrere delle parole tratte dagli scritti di Rachel - la forma teatrale lascia il posto all'emozione del contenuto. Il climax si fa ascendente fino a quando la donna spiana sul paviento una grande mappa geografica, ci si accovaccia sopra, la calpesta e piange. Ma lo strumento più importante per parlare della vicenda della ragazza americana e del conflitto israelo-palestinese è quello della parola. Restano come ferite aperte, come testimonianza e colpi al cuore gli scritti di Rachel (curati per lo spettcolo da Alan Rickman e Katharine Viner): le frasi sui suoi diari, le mail che mandava alla famiglia, gli appunti, le lettere. Tutto questo compone il monologo che si fa sfogo e riflessione e che insegna il coraggio della consapevolezza.



Rachel Corrie