giovedì 6 febbraio 2014

La mia classe: al cinema Mexico di Milano




E' ancora in sala, in questi giorni, a Milano il film LA MIA CLASSE di Daniele Gaglianone, in programmazione presso il Cinema Mexico di Via Savona, 57.

Riportiamo di seguito un'intervista che abbiamo fatto per voi al regista, poco dopo la presentazione del film al Festival di Venezia.

Quella classe di stranieri così vera, così reale: il film di Daniele Gaglianone









A due anni da Ruggine, Daniele Gaglianone torna sui banchi di scuola, in selezione ufficiale alle decima edizione della sezione “Giornate degli Autori” alla Mostra del Cinema di Venezia con il film intitolato “La mia classe”.
Mamon, Bassirou, ShadiShujan, Mahobeboeh, Issa, Mussa e tutti gli altri sono i protagonisti, ciascuno con il proprio vissuto e con le proprie aspettative.
Valerio Mastandrea, unico attore professionista, impersona un insegnante che prepara una classe di 'veri' stranieri, che hanno bisogno di imparare l'italiano, per vivere da noi e per ottenere il permesso di soggiorno. Girato a Roma, il film è diventato un'altra cosa quando, a poche settimane dall'inizio delle riprese è accaduto ad uno dei ragazzi un fatto reale e grave, il mancato rinnovo del documento e il rischio di espulsione.



Abbiamo intervistato Daniele Gaglianone che ringraziamo tantissimo per la sua disponibilità.



Come sono stati scelti i ragazzi che hanno preso parte al film?


Li abbiamo scelti in classi vere, siamo andati in giro ad assistere a lezioni vere, reali di insegnanti di italiano per stranieri sia per attrezzarci meglio al personaggio del professore sia per formare la classe. Abbiamo frequentato classi di scuole istituzionali e di associazioni culturali che, attraverso il volontariato, si rivolgono agli stranieri.
Abbiamo composto la classe secondo un criterio molto semplice: eravamo in cerca di persone e non di bandiere. La composizione della classe, infatti, è squilibrata perchè ci sono, ad esempio, tre curdi e tre bengalesi: cioè non ci siamo preoccupati di creare un'omogeneità o di considerare le persone come rappresentanti di etnie e questo perchè il nostro approccio al film voleva andare al di là degli stereotipi.

 

Avete avuto qualche difficoltà con i ragazzi oppure hanno raccontato con spontaneità il proprio vissuto?

 

Il rapporto tra noi è stato coltivato, siamo entrati in confidenza piano piano e le cose sono avvenute in maniera abbastanza naturale. Tra aprile e ottobre abbiamo contattato le persone, spiegato il progetto e ci siamo conosciuti in modo tale che, nel momento in cui si doveva lavorare insieme, ci fosse già la sintonia. Poi, come capita nella vita, ci sono persone con cui ti intendi di più e quelle con cui c'è bisogno di più tempo.

 

Quali sono le richieste o le aspettative espresse dai racconti dei ragazzi?

 

La cosa fondamentale che chiedono è molto semplice: quella di essere considerati degli individui.
Come il film cerca di dimostrare, la loro condizione li porta davanti a certe questioni in maniera problematica, come, per esempio, alla questione del lavoro: qualcuno è disposto a fare lo “schiavo”, altri no. In fondo, chiedono di poter vivere e non di sopravvivere.



Il personaggio di Valerio Mastrandrea, il professore, non è solo un personaggio filmico...



Parlare del personaggio di Valerio vuol dire parlare anche della struttura del film. La struttura è, infatti, a più livelli che sono tre: un livello immanente, che comprende i primi due e che si può intuire solo alla fine; un primo livello in cui Valerio interpreta un profesore come attore, e poi c'è il secondo livello in cui Valerio è lui, una persona. Alla fine, il primo e il secondo si confondono, soprattutto quando Valerio recita il monologo.
Nel film ci sono un breve prologo e un breve epilogo, estranei al film che stiamo girando in classe, che hanno reso il progetto rischioso perchè si tratta di un film di finzione, ma girato in modo tale che l'impressione di realtà sia così forte da far dire allo spettatore: “ E' vero o non è vero?”.
 
 

Infatti, durante le riprese, è accaduto qualcosa che ha fatto cambiare la direzione...


In realtà è accaduta prima dell'inizio delle riprese.
Di fronte all'impossibilità, da parte di alcuni ragazzi, di lavorare al film ci siamo immaginati che il fatto stesse accadendo in quel momento.
Il film è stato pensato cercando di andare oltre quelle formule che rischiamo di essere ricattatorie per cui tu cogli le persone in difficoltà, all'inizio, e ti relazioni o con indifferenza oppure dando aiuto. Qui, invece, per metà film c'è una dimensione ludica della lezione che porta a far scattare l'empatia con i personaggi, che non è ricattatoria. Ma quando alla fine ti raccontano il loro inferno, a quel punto non sono più cose che accadono al “solito immigrato”, ma accadono a una persona che, nel frattempo, ti è diventata familiare, a un tuo amico.
Non si tratta più di una questione che riguarda gli “altri”, ma è una tua responsabilità perchè quella persona è entrata nella tua vita.



Quali riflessioni vorresti che scaturissero da questo lavoro?



Mi auguro che questo film venga visto da più persone possibile e che faccia scaturire delle domande diverse. C'è una battuta molto dura che dice Valerio: “Quello che facciamo non serve a un cazzo”: ecco, forse se ce lo diciamo, quello che facciamo può servire sul serio.
Anche se il peso del passato è importante, i protagonisti sono persone e questo al di là della loro nazionalità. E sono persone in difficoltà.
Forse vorrei che questo fosse un film sull'integrazione, ma sull'integrazione nostra: siamo noi che ci dobbiamo integrare a una situazione nuova, complicata e difficile.