giovedì 6 marzo 2014

I nostri premi Oscar



La magica notte degli Oscar hollywoodiana ha premiato un film, per chi scrive sopravvalutato: La grande bellezza di Paolo Sorrentino.

Ma noi preferiamo parlare dell'altro lungometraggio candidato come Miglior Film Straniero:

Omar, di Hany Abu-Assad, già regista di Paradise Now.

Girato in Palestina - tra Nablus, Nazareth e Bisan - il film narra di un giovane fornaio, Omar, abituato a scavalcare il muro di recinzione (perchè di questo si tratta) che separa la sua terra da Israele: schiva proiettili, supera check-point, questo Romeo contemporaneo, per andare a trovare Nadia, la ragazza di cui è innamorato. Ma il racconto non può essere, ovviamente, solo un racconto sentimentale, c'è molto altro: Omar, insieme al fratello di Nadia, Tarek, e ad un terzo amico, Amjad, partecipa ad un'attività di addestramento clandestina per la liberazione della Palestina. Dopo l'uccisione di un soldato, il protagonista verrà fatto prigioniero e sarà torturato. Sopravvive, ma dovrà decidere se trascorrere il resto della vita in carcere oppure collaborare con la polizia israeliana. 

Interessante l'opera di Abu-Assad che inserisce - grazie alla sceneggiatura ben scritta - gli attori e in particolare Omar in una situazione claustrofobica sia per quanto riguarda gli ambienti sia per quanto riguarda la loro psicologia. Il ragazzo, infatti, si troverà a dover farei conti con le opportunità di una vita sempre più difficile: sopravvivere e tradire la causa, in una dicotomia tra etica ed egoismo.

La prima scena già anticipa il senso profondo del film: i palestinesi sono divisi, geograficamente e fisicamente e sono separati anche tra di loro (amici, parenti, amanti), ma portano dentro anche fratture interiori, ferite dell'anima causate dall'emarginazione, dalla guerra, dalla ricerca continua di un'identità. Non giudica, il regista, ma cerca di immedesimarsi e di far identificare anche il pubblico con questa gioventù che ha tutta una vita davanti, ma pur sempre una vita spezzata.

Un riscatto, invece, per la propria esistenza è quello narrato nel film vincitore del premio come Miglior Film: 12 anni schiavo, di Steve McQueen, un “inglese nero” come in tanti lo hanno definito. Film che si è aggiudicato anche il riconoscimento per la miglior sceneggiatura originale e per il quale è stata premiata l'attrice non protagonista, Lupita Nyong'o.

Dopo il bellissimo Django Unchained di Quentin Tarantino (trovate la recensione su questo sito), in tanti hanno deciso di continuare a riflettere su una delle piaghe più aperte della Storia americana, ma nessuno eguaglia la perfezione di scrittura e di regia di Tarantino.

12 anni schiavo riporta sullo schermo la schiavitù con la sua brutalità, ma anche con gli accorgimenti estetici propri del buon Cinema, ma resta superficiale la riflessione tematica: la discesa agli inferi e la redenzione successiva fanno troppo “americanata”: l'opera
cinematografica riprende la biografia di Solomon Northup che, a metà dell' '800, uomo libero, artigiano e padre di famiglia viene rapito e venduto come schiavo per lavorare nelle piantagioni della Louisiana. Lotta per dodici lunghi anni per poi riuscire a fare ritorno dai propri cari. Ma la decisione della giuria di conferire il maggiore riconoscimento a questo film è un messaggio importante: tornare a parlare della schiavitù del Passato può essere utile per continuare a riflettere sulle varie e nuove forme di schiavitù delle società contemporanee e per tenere alta la guardia.