lunedì 23 giugno 2014

Rapita nella guerra in Siria: Susan Dabbous

Lo scorso 3 giugno in Siria si sono tenute le elezioni, definitie dalla comunità internazionale e dagli Stati Uniti, in particolare, come “la parodia della democrazia”: è stato, infatti, confermato il potere a Bashar Al Assad che con un gioco di forza ha voluto dimostrare, ancora una volta, la sua supremazia.

Torneremo sull'argomento in maniera approfondita, ma per ora vi riproponiamo una breve intervista che abbiamo fatto alla giornalista Susan Dabbous poco prima delle consultazioni elettorali.

Come vuoi morire? Rapita nella Siria in guerra


Il 3 aprile 2013 Susan Dabbous, giornalista di origini siriane, è stata rapita insieme ad altri tre reporter italiani. Sono stati sequestrati a Ghassanieh, un villaggio cristiano, da parte di un gruppo legato ad al-Qaeda mentre stavano facendo le riprese per preparare un documentario per la RAI.

I giornalisti sono stati dapprima portati in casa-prigione, successivamente Susan è stata trasferita, da sola, in un appartamento con Miriam, moglie di uno jihadista, con cui ha dovuto pregare e ascoltare i discorsi di Bin Laden. Ma la domanda che le veniva posta, in maniera ricorrente, era: “ Qual è la tua morte preferita?”.

Da qui il titolo del libro: Come vuoi morire? Rapita nella Siria in guerra, il diario della prigionia di Susan Dabbous, edito da Castelvecchi.




Abbiamo intervistato per voi la giornalista che ringraziamo molto.



Innanzitutto, ci può raccontare brevemente qual è il ricordo più duro legato alla sua prigionia e quali erano i suoi pensieri ricorrenti durante quell'esperienza? Come si è rapportata con i rapitori?

Ho optato per un atteggiamento passivo di sottomissione totale, ma ci tengo molto a precisare che l’islamizzazione è stata una cosa volontaria, sono io che ho chiesto di imparare la preghiera, volevo integrarmi nel loro contesto sociale, condividere i miei giorni con altre donne nel caso in cui ce ne fossero state, uscire da un contesto di prigionia violento e angosciante. Credevo che mi avrebbero tenuto per mesi se non per anni, come accaduto ad altri ostaggi. L’integrazione per me equivaleva alla sopravvivenza.



Recentemente, durante una presentazione del suo libro, lei ha citato la frase di Padre Paolo Dall'Oglio: “Non mancare la propria morte”: ci può spiegare il significato di quella frase e del concetto che esprime?


Tra le frasi che mi hanno colpito di più del libro “Collera e Luce” di Padre Paolo Dall’Oglio c’è questa: “Per me inconsciamente la preoccupazione di non fallire la propria morte è rimasta molto viva e interviene nelle mie scelte. La paura di non morire là dove si dovrebbe, quando si dovrebbe e per le giuste ragioni”. Ho trovato in questa frase molto forte il concetto di sacrificio, cristiano, umano, per il prossimo: là dove la fede non è pregare per la propria salvezza bensì per il miglioramento dell’umanità. Padre Paolo crede così tanto nel dialogo da non ha paura di proporlo ovunque e a chiunque. In Egitto, come in Siria senza dimenticare l’Iraq. Le sue recenti scelte sono state dettate dal coraggio ma anche da una conoscenza più che trentennale del Medio Oriente. Da luglio scorso non si hanno più notizie di lui, chi lo detiene in Siria sa probabilmente chi ha tra le mani. Spero con tutta me stessa che sia trattato con rispetto.

Nel suo libro parla del coraggio del popolo siriano. La guerra civile è una guerra che i civili stanno pagando a un prezzo altissimo: vuole riportare alcune voci di quelle persone? Le loro aspettative, le loro richieste...

In Siria si spera di tornare presto alla normalità. I bambini vogliono tornare a scuola; i padri di famiglia vogliono lavorare, perché il problema del lavoro è assolutamente centrale. Le donne sognano di ritornare nelle proprie case. Sono stanche di vivere la condizione di povertà estrema, di precarietà e di mancanza di dignità. A nessuno piace essere profugo, ma in questo caso specifico si tratta di un popolo con scarsa propensione all’emigrazione. I siriani, anche i più poveri e modesti, posseggono una casa o un pezzetto di terra.

Il 2 aprile scorso è stato cancellato, in Italia, il reato di immigrazione: cosa possono fare l'Italia, ma anche l'Unione Europea in termini di immigrazione? E come tutelare i diritti dei rifugiati, dei richiedenti asilo?

L’Europa potrebbe impegnarsi di più nell’accoglienza dei profughi che arrivano sulle nostre coste sostenendo viaggi disumani, pagando decine di migliaia di euro. Appena arrivati si sentono salvi, dopo poche ore inizia un nuovo calvario, tutto europeo e burocratico, fatto non più di loschi trafficanti e vecchi barconi ma di questure e fogli di rinvio. Bisognerebbe rivedere il regolamento di Dublino che obbliga il richiedente asilo a fare domanda nel primo paese d’arrivo. Un sistema palesemente fallimentare perché nessuno vuole rimanere in Italia, Grecia o Bulgaria, paesi dalle economie fragili incapaci di dare non solo opportunità ma a volte anche l’assistenza di base.

Qual è o quale deve essere il ruolo dei mass-media italiani (e occidentali in genere) nel raccontare ciò che succede in Medioriente? E' possibile fare giornalismo, in tema di politica estera, con precisione e attenzione alla verità?

Credo che la Siria venga raccontata e anche bene, ma è una qualità dell’informazione accessibile solo ai tecnici, a chi sa dove prendere cosa. Tra siti internet, fonti dirette e fughe di notizie da parte di chi vuole colpire questo o quel gruppo in conflitto. Il problema, certo, è come rendere fruibile questa quantità a volte anche mastodontica di notizie. Discernere e tentare di verificare senza mettere a repentaglio la propria vita. È una sfida importante, conosco giornalisti italiani e stranieri che sono entrati e usciti illesi dalla Siria negli ultimi mesi, questo non significa però che non abbiano affrontato enormi rischi. In Italia c’è però un problema di discontinuità, sui temi di politica estera che vengono raccontati a singhiozzo, questo non aiuta affatto la comprensione di fenomeni complessi che ci sono ad esempio dietro i conflitti.