martedì 26 agosto 2014

Terra di transito: l'odissea dei profughi dalla realtà allo schermo




Molti sanno - ma tanti no - che il Regolamento di Dublino obbliga i richiedenti asilo a restare nel primo Paese in cui arrivano dopo essere scappati dal proprio. Nel documentario Terra di transito - del regista Paolo Martino, presentato con grande successo al Bif&st, il Festival internazionale del Film di Bari - si racconta, in particolare, il viaggio di Rahell, fuggito dalla Siria, ma non solo: si parla anche di accoglienza, di legislatura, di speranze e disillusioni.


Abbiamo intervistato per voi Paolo Martino che ringraziamo molto per la sua disponibilità.




Quali sono le direttive del Regolamento di Dublino?



Nella sua struttura diabolica, in realtà, la Convenzione di Dublino è molto semplice perchè di fatto impone ai rifugiati (migranti forzati, persone che fuggono da guerre o persecuzioni) di fermarsi nel primo Paese d'ingresso all'interno dei confini dell' UE. Questo perchè il regolamento stabilisce che il Paese competente per valutare la domanda d'asilo è il primo Paese in cui il rifugiato mette piede e ciò comporta che Paesi come l'Italia, la Grecia o la Spagna, soggetti ai flussi migratori più di altri, siano quelli in cui vengono fatte più richieste d'asilo.


Quali sono le aspettative dei profughi e dei rifugiati in Italia? E con quali difficoltà si scontrano?


I rifugiati - anche provenienti da Paesi diversi – hanno una maggiore consapevolezza, ormai è abbastanza noto che in l'Italia non è un Paese in cui è facile costruirsi un futuro, mettere radici, cercare soluzioni ai problemi da cui si fugge. I rifugiati, spesso, arrivano già con l'idea di andare via dal nostro Paese. L' Italia ha problemi strutturali, dal punto di vista economico e sociale, che vanno peggiorando, quindi questo scoraggia i rifugiati a cercare qui una soluzione ai loro. Tuttavia, per il regolamento di Dublino, sono obbligati a restare da noi, almeno finchè non ottengono l'asilo e la possibilità di spostarsi, ma soltanto per periodo molto brevi.

Quando si ottiene l'asilo, non si ha automaticamente un riconoscimento pari a quello della cittadinanza (anche se formalmente dovrebbe essere così); in realtà, attraverso un documento che si chiama “titolo di viaggio”, loro non possono cercare lavoro, avere assistenza sanitaria, etc. e quindi possono viaggiare, ma per brevi periodi, altrimenti dovrebbero restare a carico di qualcun altro.


Ci può raccontare una storia emblematica?


Nel film partiamo da un discorso corale e poi scremiamo fino ad arrivare a Rahell. La sua storia spicca, ma è una storia molto comune.

La sua famiglia fugge dall'Iraq negli anni '90 e si radica bene in Svezia, nel lavoro e nella società. Più tardi anche lui scappa prima dall'Iraq per ragioni politiche e poi anche dalla Siria (a causa della guerra di oggi) ; è un musicista, una persona molto esposta e questo, in un Paese governato da un regime, può diventare un pericolo. Nel momento in cui arriva in Europa, in Grecia, non gli vengono prese le impronte digitali, però impiega lo stesso un anno per arrivare in Italia: un viaggio difficilissimo nell'Adriatico. Sbarca in Puglia e qui gli prendono le impronte e rimane bloccato. Siamo riusciti ad arrivare in Svezia, ma solo per pochissimi giorni e per girare il documentario, ma adesso Rahell vive in Italia.


Quali sono le differenze tra l'Italia e i paesi del Nord Europa in termini di “accoglienza” ai rifugiati?


Quando parliamo di rifugiati facciamo spesso confusione rispetto al loro status economico, politico e culturale.

I rifugiati non sono persone che fuggono dalla povertà. Spesso si portano dietro un bagaglio anche molto ricco di conoscenze e, quindi, sono persone facilmente inseribili nella società e nel mondo del lavoro. Sarebbe importante - prima di parlare di accoglienza - comprendere la situazione di queste persone perchè potrebbero arricchire, con la loro esperienza, il Paese in cui arrivano.

L'Italia ha perso clamorosamente questa occasione, non ha compreso il fenomeno e lo ha amministrato solo con numeri e statistiche. Gli altri Paesi, quelli del Nord Europa come la Germania ad esempio (che accoglie quasi 1 milione di rifugiati, mentre l'Italia 50-60.000), hanno captato questa possibilità e hanno unito la loro storica tradizione di socialdemocrazie all'apertura verso lo straniero. Questo in Scandinavia, Olanda, Belgio, Francia.

In Svezia i rifugiati vengono immediatamente inseriti in programmi di formazione linguistica e professionale, partendo dalla persona, per capire le sue attitudini e così queste persone, in pochissimi mesi, riescono a restituire quello che lo Stato investe su di loro. La seconda parte di Terra di transito testimonia proprio questo: intervistiamo tre ragazzi palestinesi che fuggono da Damasco, i quali si sono inseriti in questi programmi e, a distanza di un anno, lavorano...e pagano le tasse. Intervistiamo anche una ragazza curda che è diventata un' esponente di spicco del Partito socialista svedese...


Cosa avete voluto raccontare e denunciare, quindi, con questo lavoro?


Denunciamo il paradosso evidente di un'Italia che, da una parte, continua a livello propagandistico a proclamarsi “terra di invasione” da parte degli stranieri e, dall'altra, accetta l'arrivo degli coatto dei rifugiati.

Io e Rahell stiamo continuando a seguire storie ancora in evoluzione perchè vogliamo fare proprio una campagna su questo argomento.