giovedì 25 settembre 2014

Foley, la guerra, la comunicazione




Il video dell’esecuzione del giornalista Usa sconvolge e deve far riflettere: l’uso dei media da parte dei miliziani ha creato una nuova frontiera del raccontare i conflitti (già su www.gcodemag.it)

di Alessandro Di Rienzo.



Concepito a Roma in un incontro occasionale il 21 aprile del 1978 è nato a Napoli il penultimo giorno dello stesso anno in quanto la madre aveva letto un noto libro di Oriana Fallaci. Questo lo ha appreso nel novembre del 2002 mentre contestava proprio la Fallaci a Firenze in occasione dell’Europa Social Forum. Da allora ha sviluppato una irrimediabile attrazione verso le contraddizioni. Caratteristica questa che lo ha portato, con penna o telecamera, a interessarsi di Medio Oriente e vertenze sindacali.
22 agosto 2014 – La barbara uccisione di James Foley genera smarrimento, a chiunque. È l’agosto nero dei videomakers, figura professionalmente mai troppo riconosciuta ma particolarmente esposta nei contesti di guerra. Troupe leggera, spesso composta da una sola persona.
Cameraman, intervistatore, producer, montatore, tutto in uno, per questo mobile ed economica, soprattutto se il servizio non lo si commissiona e lo si compra a posteriori. Questa era la vita di James Foley prima del sequestro, il secondo, durato 635 giorni. Fino a due decenni fa i giornalisti erano percepiti come osservatori neutrali. Oggi non più. In questo tempo sono stati ammazzati da chiunque: dall’esercito statunitense, come da quello israeliano e dai ribelli iracheni.
Ma a generare disorientamento fin dentro le convinzioni di una vita è il cortocircuito semantico generato dal video dell’uccisione. Eravamo abituati a vedere in tuta arancione gli arabi, probabilmente musulmani, ma sicuramente gente dalla pelle minimamente scura.
Ammanettati ai polsi e spesso anche alle caviglie in una prigione di rete metallica e filo spinato nella baia di Guantamano. Volti indirizzati verso il basso tra i sorrisi appena accennati di militari statunitensi. Questa volta no, è un occidentale a vestire la tuta arancione, uno di noi verrebbe da dire. Per i primi il sospetto di appartenere a una rete terroristica. Sospetto che spesso si è rivelato infondato. Per Foley la cittadinanza statunitense.

Il video, opportunamente censurato dai nostri siti di informazione, ma che si può trovare nella versione diramata dall’Is su diversi siti che incitano alla jihad, apre con il discorso di Obama che annuncia la ripresa dei bombardamenti in Iraq contro le postazioni del califfato. Antefatto che si chiude con l’effetto del riavvolgimento del nastro per passare all’immagine di Foley, inginocchiato e ammanettato in tuta arancione, con un uomo vestito di nero e con il volto coperto che brandisce con la mano sinistra un coltello.
A stordire sono le parole di Foley: l’accusa al fratello, un militare Usa, di aver decretato la sua morte nel giorno che ha preso parte agli interventi militari in medio oriente. Saluta i genitori rimpiangendo di non averli più rivisti ma spiegando che “la mia nave è già salpata”.
Bestemmia la propria cittadinanza, quella di statunitense, definendola causa della propria morte. Un discorso senza segni apparenti di nervosismo che possano far pensare a una contraddizione, a un tentennamento. Pare che Foley vada tranquillo incontro la morte. Poi le parole dell’aguzzino, in un inglese disinvolto, che in un cambio di telecamera tratta Obama da pari, come fosse una televendita, enunciando le sue condizioni nel “messaggio all’America”.
La mano destra dell’assassino alza con un gesto brusco il mento di Foley e il coltello comincia a tagliare la gola, anche qui nessuna apparente resistenza da parte Foley. Non sappiamo, non possiamo sapere, cosa succede a un uomo dopo 635 giorni di prigionia. L’immagine successiva è il corpo riverso a pancia in giù del videomaker con la testa poggiata sulla schiena. Ricompare l’assassino, con il vestito pulito senza macchie di sangue a minacciare la vita di un altro giornalista occidentale, questo a dimostrare una regia ben studiata del video prodotto.
Un video con una trama e quindi un montaggio che falsa il tempo affinché il messaggio arrivi chiaro. 4 minuti e 40 secondi che destabilizzano noi tutti. Più della cella di Guantanamo riprodotta in un’esposizione d’arte a Parigi. Più delle numerose immagini degli arsi vivi dal fosforo bianco, sostanza questa usata nella Falluja oggi conquistata dall’Is, che brucia in un istante tutti i liquidi del corpo umano. Il video prodotto da Al Furqam Media Foundation è stato postato sul social network Diaspora per rimbalzare in poche ore in ogni dove del mondo telematico.
Video che di fatto crea un consenso enorme in Occidente per chi invoca l’immediato intervento militare. Video che viene condiviso con favore da molte persone, in ogni parte del mondo, dalla Cecenia e da tutti gli antiputiniani fino agli immigrati arabi di seconda generazione che vivono a Stoccolma. Video che crea una nuova geopolitica dalle varianti e dagli equilibri imprevedibili, che polarizza i blocchi ma che li mina al suo interno.
Un ragazzo a Mosca, dal nome arabo, che si ritrae tra i libri, inneggia all’uccisione di un soldato di Assad. Il Papa parla di terza guerra mondiale, di sicuro è la prima guerra globale, che puoi seguire dal computer evitando anche i siti di informazione ma attenendoti alle prove dirette degli smartphone, districandoti tra le opposte tifoserie. Sembra già preistoria Peter Arnett che con una sola telecamera a raggi infrarossi racconta l’attacco di Baghdad per la Cnn durante la prima guerra del golfo. L’Is comunica con diversi siti, alcuni in inglese come http://jihadology.net/.
L’aggiornamento è quotidiano, ieri potevi assistere a un convoglio di yazidi (solo uomini) felici di convertirsi all’Islam con relativo aqiqa (battesimo) collettivo in un lago; oggi all’arrivo di nuovi miliziani che entusiasti e in favore di camera stracciano il passaporto di provenienza per impugnare un kalashnikov. Non sappiamo quale sia la reale forza dell’Is, ma forse solo adesso cominciamo a percepire il potere evocativo di queste immagini da loro prodotte.
Anche chi ieri era pacifista oggi scrive: quelli dell’Isis non sono più esseri umani. Hanno deciso di non esserlo più. Non vanno “capiti”. Se intendono sterminare il loro prossimo, vanno sterminati. Io rispondi che la velleità di sterminio genera sterminio. Ma nella terra dove è morto Foley la sofferenza non è cominciata con la sua morte. Non nascono nemmeno con l’Is. Ma con le aggressioni occindentali della prima guerra del Golfo e l’embargo di 13 anni, con la guerra del 2003 voluta nonostante l’avvertimento dell’inviato speciale dell’Onu, l’algerino Lakhdar Brahimi, allora inviato speciale dell’ONU per l’Iraq, il quale aveva detto che la forzata ed eterodiretta debaatizzazione dell’Iraq avrebbe portato a un ginepraio confessionale e militare. Oggi l’Europa pensa che la soluzione sia armare il nemico dell’Is, quindi i curdi. Ome se il precedente libico non abbia insegnato nulla. Anche in quell’occasione la Francia era capofila nell’armare i ribelli.
Per secoli il motto dei governanti ai militari era: conosci il tuo nemico. Nessuno adesso conosce l’Is ma in una terra dove le crudeltà sono all’ordine del giorno da troppi anni sappiamo che sono anche loro crudeli. Quello che ancora ignoriamo è quanto consenso possano avere in questa guerra globale.