martedì 17 febbraio 2015

Antisemitismo, islamofobia e razzismo. Rappresentazioni, immaginari e pratiche nella società italiana


 



Ponendo particolare attenzione al dibattito intorno alle vecchie e nuove forme con cui il razzismo si è manifestato all’interno delle società occidentali, il volume intitolato “Antisemitismo, islamofobia e razzismo. Rappresentazioni, immaginari e pratiche nella società italiana”, edito da Ediesse, ne discute i caratteri sociali e storici, affrontando temi salienti quali l’antisemitismo e l’islamofobia. Gli autori sono: Alfredo Alietti, Claudio Vercelli e Dario Padovan.


L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi i Professori Alfredo Alietti e Claudio Vercelli che ringrazia molto per la disponibilità.

Quali sono le vecchie e nuove forme di razzismo e quali le loro matrici?



C. Vercelli: Non è agevole distinguere tra vecchie e nuove forme di razzismo, trattandosi di un fenomeno per più aspetti polimorfo, ossia in grado di assumere connotazioni in base alle circostanze del momento e alle esigenze di chi ne fa ricorso, non importa però quanto consapevolmente. Piuttosto, ed è questo l’elemento dal quale partire, il razzismo comprende una vasta gamma di atteggiamenti basati sul pregiudizio che, dall’ indifferenza possono arrivare anche alla violenza fisica fino, in ultimo, alle politiche di Stato per l’eliminazione delle diversità attraverso la distruzione fisica dei “diversi”. L’elemento peculiare ai razzismi, ovvero condiviso comunemente, è il convincimento che un individuo non possa né debba essere considerato in base alla sua personalità e alla sua soggettività bensì come parte di una serie precostituita – la cosiddetta “razza” – che assommerebbe in sé dei tratti immutabili, Come tali questi influenzerebbero l’individuo medesimo nelle sue condotte, nel suo modo di porsi dinanzi ai fatti del mondo, nelle relazioni che intrattiene con il resto della comunità umana. Tale attribuzione di caratteri fissi, ovvero intesi come immutabili, ha una natura ascrittiva ed inchioda la persona ad una sorta di “destino” immodificabile. Non a caso, il razzismo intende la diversità come un dato di natura e non come una costruzione sociale. Il qual fatto induce, chi fa propria tale visione delle cose, a ritenere che sia impossibile trasformare gli altri (ma anche se stessi) e che da tale riscontro non possa che derivare un conflitto tra le diversità oppure l’obbligo ad adottare politiche di separazione tra gli appartenenti a gruppi razziali diversi se non, in ultimo, l’eliminazione di quanti sono ritenuti una minaccia per la propria sopravvivenza. Sta, all’interno del dispositivo razzista, una concezione del mondo che cancella la cultura, intesa come insieme di pratiche umane evolutive, fondate sullo scambio, alla quale si sostituisce l’idea che le differenze non compongono il quadro della varietà umana ma una sorta di confine insormontabile e come tale perennemente a rischio da parte di chi, invece, pratica i meticciati. Un elemento fondamentale per relazionare i razzismi contemporanei da un punto di vista storico è verificare, tra gli altri, due elementi indice: le migrazioni e la struttura del mercato del lavoro. Il razzismo, da tale punto di vista, riordina i rapporti di forza e di dominio, stabilendo scale gerarchiche, vincolando le scelte degli uni, allocando risorse a favore di altri e così via.


A. Alietti: Nella prospettiva sociologica e psicosociologica la questione delle forme mediante le quali si manifesta l’atteggiamento razzista risulta assai ampia. A partire dalla metà degli anni ’70 alcuni studi rivelarono come l’attore sociale tendesse ad esprimere opinioni e atteggiamenti avversi alle minoranze etniche in maniera indiretta, occultando il più possibile quelle forme linguisticamente aperte e dirette, in contrasto con le norme sociali di condanna del razzismo. Da tale analisi, vi è stato un fiorire di termini con cui indicare questa inedita forma: razzismo moderno, simbolico, nascosto, debole. Indubbiamente, il clima culturale europeo e nordamericano, pur con dei profondi distinguo legati alla specificità storica dei rapporti interetnici, sorto alla fine della guerra mondiale con il portato del genocidio nazista ha contribuito a combattere l’ideologia razzista fondata sulla dimensione biologica che legittimava la gerarchia tra le supposte diverse razze.

Ciò non ha significato il venire meno del razzismo quale fenomeno di esclusione di determinati gruppi nel dopo guerra fino ad oggi. Infatti, alla parola razza che ha accompagnato il discorso scientista a cavallo del XIX e XX secolo si è sostituito il concetto di etnia, ovvero un approccio culturalista alle differenze il quale appare meno escludente in termini generali e più democratico nel trovare “buone ragioni” all’atteggiamento razzista. Tuttavia, questa alchimia sociale che nasconde l’atteggiamento di rifiuto della diversità etnica non ha mutato nel profondo il senso del razzismo tradizionale. Alla cristallizzazione di caratteri biologici si è venuta a costruire una retorica sociale che cristallizza ed essenzializza i tratti culturali, in una sorta di “biologizzazione molle”. Su questo piano di analisi si avverte come vi sia una forte continuità tra il cosiddetto “vecchio” e “nuovo razzismo”, al di là delle definizioni adottate dagli studiosi negli ultimi trent’anni. L’orizzonte comune è un discorso sull’immutabilità (di razza e/o di etnica) dei destini dei soggetti sui quali si riversa la logica razzizzante dentro un disegno gerarchico delle diversità umane sostenute e rafforzate da politiche istituzionali tese a riprodurre tale ordine sociale ed etnico. Inoltre, alla luce delle dinamiche sociali, politiche, economiche e culturali occorse in Europa, dall’avvento della globalizzazione e del trionfo del neoliberalismo, vi è da valutare seriamente gli effetti della crisi del multiculturalismo e di crescenti conflitti interni ai paesi europei generati dalla perdurante crisi e dalle retoriche neo-nazionaliste, populiste e, specificatamente, anti-islamiche. Appare evidente che nella nostra contemporaneità il razzismo sia divenuto un potente fattore di legame sociale in negativo, soprattutto a fronte della crescente insicurezza e instabilità delle traiettorie dei gruppi autoctoni più vulnerabili e più prossimi socialmente agli immigrati. Basta osservare con un minimo di attenzione alle reazioni nello spazio neutro del web, ad esempio ai commenti delle notizie dei giornali nazionali on-line, per verificare che dichiararsi razzisti non più argini, non ha più quel velo, per quanto ipocrita, di possibile condanna collettiva.

Il razzismo oggi è sociologicamente e socialmente ancora forte e in grado di minare le basi degli assetti democratici e della convivenza.



Qual è il legame tra religione, politica ed economia, soprattutto in relazione all'Islam di cui si è parlato da poco, anche alla luce dei fatti di Parigi?



C. Vercelli: Impossibile dare una risposta esaustiva a questa domanda. Non in poche righe, almeno. Ciò a cui stiamo assistendo non è il ritorno della religione ma il suo spregiudicato uso politico. Dinanzi a società che mutano, anche drasticamente e repentinamente, e davanti alla marginalità di un grande numero di persone, escluse dal mercato del lavoro così come dalla partecipazione politica, il razzismo cavalca disagi e timori, traducendosi in condotte xenofobe. Più che ad uno scontro tra civiltà, come certuni prediligono affermare, ci troviamo di fronte alla crisi interna alle stesse “civiltà”, e soprattutto alle società che hanno prodotto, laddove queste non riescono a dare risposte adeguate al bisogno di integrazione degli individui. Parlerei quindi di una crisi della politica, nel momento in cui questa dovrebbe essere il mezzo più importante per creare le condizioni della convivenza e, invece, non riesce a svolgere tale funzione. Non di meno il razzismo, che non è solo un problema del mondo cosiddetto occidentale ma attraversa un po’ tutte le comunità umane, si inserisce all’interno dei grandi disagi collettivi scavando solchi incolmabili. Se la politica è in crisi, e se invece certe ideologie hanno spazio oltre misura, ciò è dovuto anche al fatto che l’idea che l’economia sia il punto di partenza e di arrivo dell’uomo – in buona sostanza alla pari quasi di una religione – oggi più che integrare tende a disintegrare le persone, corrodendone i legami con la comunità di riferimento e consegnandoli ad una solitudine senza consolazione.



A. Alietti: Il tema di questa complessa relazione richiederebbe un’analisi approfondita in grado di ricomprendere passati processi sociali e storici con quelli attuali. Il fondamentalismo islamico non è l’esito impazzito e irrazionale di eventi caotici che hanno favorito il suo emergere quale realtà diffusa nel mondo islamico. Vi di fatto nella comprensione dell’Islam e delle sue derive uno spirito etnocentrico che ne confonde la sua articolata espressione politica, economica e religiosa.

L’aspirazione alla democrazia di una parte dei paesi rientranti nella denominazione “islamici” è stata per molto tempo frustrata da una volontà di potenza dell’occidente priva di un progetto serio e di lungo periodo. La guerra civile in corso nel mondo islamico e la globalizzazione del terrorismo di matrice jihadista risultano diversi nella loro natura. Da un lato, le vecchie dittature sconfitte dall’occidente (Iraq e Libia, ad esempio) hanno lasciato uno spazio di potere alla crescita delle nuove oligarchie islamiste radicali sostenute dalle potenze petrolifere della regione. Dall’altro, una parte di cittadini europei figli dell’immigrazione hanno trovato un’identità forte capace di arginare i processi di segregazione e di povertà subiti nelle estese periferie metropolitane europee, promuovendo un’istanza di ribellione a questa condizione di subalternità. Non si pretende di giustificare l’atto, o gli atti, di violenza perpetrati da cittadini europei in nome di un confuso anti-occidentalismo, nondimeno parte di questi giovani sperimentano quotidianamente la debolezza della democrazia e della sua incapacità di combattere le disuguaglianze.

Come qualcuno recentemente ha ricordato l’Isis, il califfato islamico, promuove non solo terrore, guerra ma anche un esteso sistema di welfare nelle zone occupate che accentua il consenso delle popolazioni deprivate. In questo caso il legame tra la religione, la società e l’economia si salda allontanando l’ipotesi di una emancipazione democratica delle masse arabe-musulmane. A ciò si aggiunge la cecità dell’occidente sui tradizionali alleati dei paesi del Golfo con i quali si parla la stessa lingua del potere economico e finanziario. Le speranze disattese delle “primavere arabe”, tranne (forse) nel caso della Tunisia, nel dare una forma democratica reale alle società islamiche è l’esempio lampante di un diseguale ordine geopolitico che non vuole cambiare lo status quo funzionale all’immagine reiterata di una inconciliabilità tra la democrazia e l’Islam. Parafrasando una citazione, spesso evocata, dal famoso libro di Samir Kassir “L’infelicità araba”, si può affermare che nelle società islamiche vi sia una ineluttabile e diffusa sensazione che il futuro e, aggiungiamo noi la democrazia, sia una strada ostruita.



Quanto è importante il linguaggio per veicolare pregiudizi e stereotipi?



C. Vercelli: Tralasciando i deboli e fallaci convincimenti del “politicamente corretto”, dove si ritiene invece che non nominando una cosa, o facendolo secondo un lessico improntato a obblighi di espressione (quindi anche a censure e autocensure) il linguaggio rimane un vettore fondamentale nel generare stereotipi così come nel liberare energie e risorse. Non è un caso se quei regimi politici che storicamente hanno fatto massimo ricorso al razzismo come politica di Stato, abbiamo sempre aspirato a contrarre il pluralismo lessicale e la grande ricchezza linguistica. Poiché nella semplificazione della terminologia, nell’impoverimento della lingua, nella riduzione dei significati si manifesta quel fenomeno di banalizzazione che sta all’origine dell’indifferenza verso l’altrui esistenza. Non di meno il linguaggio, per la sua natura di veicolo di relazione, di scambio, di comunicazione è uno degli snodi fondamentali dai quali si deve ripartire per dare sostanza ad una politica di inclusione. Non è solo una questione di “galateo”, e neanche di pedagogia civile ma di capacità di costruire relazioni attive, basate non sulla sottomissione o sul narcisismo, bensì sulla recirprocità.



A. Alietti: Il linguaggio è fondamentale, senza di esso non è possibile rappresentare il mondo sociale e raccontarlo. Di conseguenze il vettore linguistico in riferimento alla riproduzione ideologica del razzismo assume un valore decisivo. Nel quotidiano si utilizzano termini e parole che rappresentano l’alterità etnica in una ottica stereotipata la quale sedimenta immagini negative.

In diversi studi sul linguaggio nei mass-media, nell’ambito della socialità si evidenziano i meccanismi cognitivi che amplificano l’omogeneità del proprio gruppo di appartenenza e, al contempo, la distanza sociale da chi è diverso. Lo svelamento del linguaggio razzista è un passo fondamentale per contrastare l’egemonia di un diffuso e potente regime discorsivo che solidifica le pseudo ragioni dell’avversione a determinati gruppi etnici. L’esempio classico della frase “Io non sono razzista, ma….” segnala con chiarezza la forza del linguaggio quotidiano a rappresentarsi quali portatori di una verità indiscutibile ed auto-evidente. Il lessico razzista, come affermato in precedenza, diventa sempre meno condannabile, da cui ne consegue che lo sforzo di denunciare quantomeno le sue forme pubbliche sia un impegno costante. Il problema non è di abbracciare un fantomatico “political correct”, spesso grottesco nei suoi risultati, ma di avviare una propedeutica del linguaggio del rispetto e del riconoscimento dell’alterità nelle sue mutevoli declinazioni (non solo etniche).



Perché, come scrivete nel testo, nel razzismo si identifica una forma di "falsa razionalità"?




C. Vercelli: Il razzismo solo in parte nasce dall’ignoranza, come comunemente si vorrebbe invece credere. Semmai, tanto più in una età come quella che stiamo vivendo, è rimesso in circolazione dai processi di globalizzazione. I quali, per la loro natura “liquida”, dal momento stesso che mettono in discussione confini e sovranità, come anche diritti e opportunità, alimentano paure e angosce da sconfinamento. Tutto si fa più fragile e, a tratti, incomprensibile nella percezione dei molti, che subiscono passivamente quanto avviene. Il razzismo, non necessariamente inteso come una dottrina precostituita bensì nella sua natura di interpretazione banalizzante dei processi sociali e storici, dà invece un senso di comprensibilità a ciò che altrimenti rischia di rimanere incomprensibile. Per il fatto stesso di dividere l’umanità, di rifiutarne la varietà, di stabilire delle gerarchie, di legittimare rapporti di potere spesso ingiusti, si configura agli occhi di quanti sono spiazzati e, nel medesimo tempo, disincantati rispetto al mutamento in atto, come uno strumento attivo per “governare” le difficoltà che incontrano. Si tratta di una falsa razionalità perché dietro la plausibilità dei discorsi e delle condotte razziste non c’è il mondo ma una immagine di esso, basata perlopi, se non esclusivamente, sulla paura. Cosa che serve a fare da propellente a condotte fondate sul pregiudizio, nella convinzione che da ciò si possa trarre un beneficio personale. Non di meno, quando tutto ciò si incontra e si traduce in politiche di Stato, come è avvenuto ben più di una volta nel Novecento, il disastro collettivo è dietro l’angolo.


A. Alietti: La risposta a questa domanda si palesa nell’idea, più volte richiamata, che il razzismo prefigura nella sua logica un ordine sociale fondato su una razionalità auto-evidente, indiscutibile, in grado di giustificare il suo affermarsi e il suo riprodursi. La falsa razionalità, inoltre, si manifesta nel momento in cui crea le condizioni per legami sociali fittizi, il più delle volte, basati sul risentimento, dunque su emozioni che poco o nulla hanno a che fare con la riflessione razionale.

In altre parole, la vulgata razzista agisce come collettore di insicurezze, frustrazioni collettive alle quali si fornisce una spiegazione semplice delle cause attraverso l’individuazione dello straniero quale responsabile tout court.





Ponendo particolare attenzione al dibattito intorno alle vecchie e nuove forme con cui il razzismo si è manifestato all’interno delle società occidentali, il volume intitolato “Antisemitismo, islamofobia e razzismo. Rappresentazioni, immaginari e pratiche nella società italiana”, edito da Ediesse, ne discute i caratteri sociali e storici, affrontando temi salienti quali l’antisemitismo e l’islamofobia. Gli autori sono: Alfredo Alietti, Claudio Vercelli e Dario Padovan.


L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi i Professori Alfredo Alietti e Claudio Vercelli che ringrazia molto per la disponibilità.



Quali sono le vecchie e nuove forme di razzismo e quali le loro matrici?



C. Vercelli: Non è agevole distinguere tra vecchie e nuove forme di razzismo, trattandosi di un fenomeno per più aspetti polimorfo, ossia in grado di assumere connotazioni in base alle circostanze del momento e alle esigenze di chi ne fa ricorso, non importa però quanto consapevolmente. Piuttosto, ed è questo l’elemento dal quale partire, il razzismo comprende una vasta gamma di atteggiamenti basati sul pregiudizio che, dall’ indifferenza possono arrivare anche alla violenza fisica fino, in ultimo, alle politiche di Stato per l’eliminazione delle diversità attraverso la distruzione fisica dei “diversi”. L’elemento peculiare ai razzismi, ovvero condiviso comunemente, è il convincimento che un individuo non possa né debba essere considerato in base alla sua personalità e alla sua soggettività bensì come parte di una serie precostituita – la cosiddetta “razza” – che assommerebbe in sé dei tratti immutabili, Come tali questi influenzerebbero l’individuo medesimo nelle sue condotte, nel suo modo di porsi dinanzi ai fatti del mondo, nelle relazioni che intrattiene con il resto della comunità umana. Tale attribuzione di caratteri fissi, ovvero intesi come immutabili, ha una natura ascrittiva ed inchioda la persona ad una sorta di “destino” immodificabile. Non a caso, il razzismo intende la diversità come un dato di natura e non come una costruzione sociale. Il qual fatto induce, chi fa propria tale visione delle cose, a ritenere che sia impossibile trasformare gli altri (ma anche se stessi) e che da tale riscontro non possa che derivare un conflitto tra le diversità oppure l’obbligo ad adottare politiche di separazione tra gli appartenenti a gruppi razziali diversi se non, in ultimo, l’eliminazione di quanti sono ritenuti una minaccia per la propria sopravvivenza. Sta, all’interno del dispositivo razzista, una concezione del mondo che cancella la cultura, intesa come insieme di pratiche umane evolutive, fondate sullo scambio, alla quale si sostituisce l’idea che le differenze non compongono il quadro della varietà umana ma una sorta di confine insormontabile e come tale perennemente a rischio da parte di chi, invece, pratica i meticciati. Un elemento fondamentale per relazionare i razzismi contemporanei da un punto di vista storico è verificare, tra gli altri, due elementi indice: le migrazioni e la struttura del mercato del lavoro. Il razzismo, da tale punto di vista, riordina i rapporti di forza e di dominio, stabilendo scale gerarchiche, vincolando le scelte degli uni, allocando risorse a favore di altri e così via.


A. Alietti: Nella prospettiva sociologica e psicosociologica la questione delle forme mediante le quali si manifesta l’atteggiamento razzista risulta assai ampia. A partire dalla metà degli anni ’70 alcuni studi rivelarono come l’attore sociale tendesse ad esprimere opinioni e atteggiamenti avversi alle minoranze etniche in maniera indiretta, occultando il più possibile quelle forme linguisticamente aperte e dirette, in contrasto con le norme sociali di condanna del razzismo. Da tale analisi, vi è stato un fiorire di termini con cui indicare questa inedita forma: razzismo moderno, simbolico, nascosto, debole. Indubbiamente, il clima culturale europeo e nordamericano, pur con dei profondi distinguo legati alla specificità storica dei rapporti interetnici, sorto alla fine della guerra mondiale con il portato del genocidio nazista ha contribuito a combattere l’ideologia razzista fondata sulla dimensione biologica che legittimava la gerarchia tra le supposte diverse razze.

Ciò non ha significato il venire meno del razzismo quale fenomeno di esclusione di determinati gruppi nel dopo guerra fino ad oggi. Infatti, alla parola razza che ha accompagnato il discorso scientista a cavallo del XIX e XX secolo si è sostituito il concetto di etnia, ovvero un approccio culturalista alle differenze il quale appare meno escludente in termini generali e più democratico nel trovare “buone ragioni” all’atteggiamento razzista. Tuttavia, questa alchimia sociale che nasconde l’atteggiamento di rifiuto della diversità etnica non ha mutato nel profondo il senso del razzismo tradizionale. Alla cristallizzazione di caratteri biologici si è venuta a costruire una retorica sociale che cristallizza ed essenzializza i tratti culturali, in una sorta di “biologizzazione molle”. Su questo piano di analisi si avverte come vi sia una forte continuità tra il cosiddetto “vecchio” e “nuovo razzismo”, al di là delle definizioni adottate dagli studiosi negli ultimi trent’anni. L’orizzonte comune è un discorso sull’immutabilità (di razza e/o di etnica) dei destini dei soggetti sui quali si riversa la logica razzizzante dentro un disegno gerarchico delle diversità umane sostenute e rafforzate da politiche istituzionali tese a riprodurre tale ordine sociale ed etnico. Inoltre, alla luce delle dinamiche sociali, politiche, economiche e culturali occorse in Europa, dall’avvento della globalizzazione e del trionfo del neoliberalismo, vi è da valutare seriamente gli effetti della crisi del multiculturalismo e di crescenti conflitti interni ai paesi europei generati dalla perdurante crisi e dalle retoriche neo-nazionaliste, populiste e, specificatamente, anti-islamiche. Appare evidente che nella nostra contemporaneità il razzismo sia divenuto un potente fattore di legame sociale in negativo, soprattutto a fronte della crescente insicurezza e instabilità delle traiettorie dei gruppi autoctoni più vulnerabili e più prossimi socialmente agli immigrati. Basta osservare con un minimo di attenzione alle reazioni nello spazio neutro del web, ad esempio ai commenti delle notizie dei giornali nazionali on-line, per verificare che dichiararsi razzisti non più argini, non ha più quel velo, per quanto ipocrita, di possibile condanna collettiva.

Il razzismo oggi è sociologicamente e socialmente ancora forte e in grado di minare le basi degli assetti democratici e della convivenza.



Qual è il legame tra religione, politica ed economia, soprattutto in relazione all'Islam di cui si è parlato da poco, anche alla luce dei fatti di Parigi?




C. Vercelli: Impossibile dare una risposta esaustiva a questa domanda. Non in poche righe, almeno. Ciò a cui stiamo assistendo non è il ritorno della religione ma il suo spregiudicato uso politico. Dinanzi a società che mutano, anche drasticamente e repentinamente, e davanti alla marginalità di un grande numero di persone, escluse dal mercato del lavoro così come dalla partecipazione politica, il razzismo cavalca disagi e timori, traducendosi in condotte xenofobe. Più che ad uno scontro tra civiltà, come certuni prediligono affermare, ci troviamo di fronte alla crisi interna alle stesse “civiltà”, e soprattutto alle società che hanno prodotto, laddove queste non riescono a dare risposte adeguate al bisogno di integrazione degli individui. Parlerei quindi di una crisi della politica, nel momento in cui questa dovrebbe essere il mezzo più importante per creare le condizioni della convivenza e, invece, non riesce a svolgere tale funzione. Non di meno il razzismo, che non è solo un problema del mondo cosiddetto occidentale ma attraversa un po’ tutte le comunità umane, si inserisce all’interno dei grandi disagi collettivi scavando solchi incolmabili. Se la politica è in crisi, e se invece certe ideologie hanno spazio oltre misura, ciò è dovuto anche al fatto che l’idea che l’economia sia il punto di partenza e di arrivo dell’uomo – in buona sostanza alla pari quasi di una religione – oggi più che integrare tende a disintegrare le persone, corrodendone i legami con la comunità di riferimento e consegnandoli ad una solitudine senza consolazione.

A. Alietti: Il tema di questa complessa relazione richiederebbe un’analisi approfondita in grado di ricomprendere passati processi sociali e storici con quelli attuali. Il fondamentalismo islamico non è l’esito impazzito e irrazionale di eventi caotici che hanno favorito il suo emergere quale realtà diffusa nel mondo islamico. Vi di fatto nella comprensione dell’Islam e delle sue derive uno spirito etnocentrico che ne confonde la sua articolata espressione politica, economica e religiosa.

L’aspirazione alla democrazia di una parte dei paesi rientranti nella denominazione “islamici” è stata per molto tempo frustrata da una volontà di potenza dell’occidente priva di un progetto serio e di lungo periodo. La guerra civile in corso nel mondo islamico e la globalizzazione del terrorismo di matrice jihadista risultano diversi nella loro natura. Da un lato, le vecchie dittature sconfitte dall’occidente (Iraq e Libia, ad esempio) hanno lasciato uno spazio di potere alla crescita delle nuove oligarchie islamiste radicali sostenute dalle potenze petrolifere della regione. Dall’altro, una parte di cittadini europei figli dell’immigrazione hanno trovato un’identità forte capace di arginare i processi di segregazione e di povertà subiti nelle estese periferie metropolitane europee, promuovendo un’istanza di ribellione a questa condizione di subalternità. Non si pretende di giustificare l’atto, o gli atti, di violenza perpetrati da cittadini europei in nome di un confuso anti-occidentalismo, nondimeno parte di questi giovani sperimentano quotidianamente la debolezza della democrazia e della sua incapacità di combattere le disuguaglianze.

Come qualcuno recentemente ha ricordato l’Isis, il califfato islamico, promuove non solo terrore, guerra ma anche un esteso sistema di welfare nelle zone occupate che accentua il consenso delle popolazioni deprivate. In questo caso il legame tra la religione, la società e l’economia si salda allontanando l’ipotesi di una emancipazione democratica delle masse arabe-musulmane. A ciò si aggiunge la cecità dell’occidente sui tradizionali alleati dei paesi del Golfo con i quali si parla la stessa lingua del potere economico e finanziario. Le speranze disattese delle “primavere arabe”, tranne (forse) nel caso della Tunisia, nel dare una forma democratica reale alle società islamiche è l’esempio lampante di un diseguale ordine geopolitico che non vuole cambiare lo status quo funzionale all’immagine reiterata di una inconciliabilità tra la democrazia e l’Islam. Parafrasando una citazione, spesso evocata, dal famoso libro di Samir Kassir “L’infelicità araba”, si può affermare che nelle società islamiche vi sia una ineluttabile e diffusa sensazione che il futuro e, aggiungiamo noi la democrazia, sia una strada ostruita.



Quanto è importante il linguaggio per veicolare pregiudizi e stereotipi?



C. Vercelli: Tralasciando i deboli e fallaci convincimenti del “politicamente corretto”, dove si ritiene invece che non nominando una cosa, o facendolo secondo un lessico improntato a obblighi di espressione (quindi anche a censure e autocensure) il linguaggio rimane un vettore fondamentale nel generare stereotipi così come nel liberare energie e risorse. Non è un caso se quei regimi politici che storicamente hanno fatto massimo ricorso al razzismo come politica di Stato, abbiamo sempre aspirato a contrarre il pluralismo lessicale e la grande ricchezza linguistica. Poiché nella semplificazione della terminologia, nell’impoverimento della lingua, nella riduzione dei significati si manifesta quel fenomeno di banalizzazione che sta all’origine dell’indifferenza verso l’altrui esistenza. Non di meno il linguaggio, per la sua natura di veicolo di relazione, di scambio, di comunicazione è uno degli snodi fondamentali dai quali si deve ripartire per dare sostanza ad una politica di inclusione. Non è solo una questione di “galateo”, e neanche di pedagogia civile ma di capacità di costruire relazioni attive, basate non sulla sottomissione o sul narcisismo, bensì sulla reciprocità.



A. Alietti: Il linguaggio è fondamentale, senza di esso non è possibile rappresentare il mondo sociale e raccontarlo. Di conseguenze il vettore linguistico in riferimento alla riproduzione ideologica del razzismo assume un valore decisivo. Nel quotidiano si utilizzano termini e parole che rappresentano l’alterità etnica in una ottica stereotipata la quale sedimenta immagini negative.

In diversi studi sul linguaggio nei mass-media, nell’ambito della socialità si evidenziano i meccanismi cognitivi che amplificano l’omogeneità del proprio gruppo di appartenenza e, al contempo, la distanza sociale da chi è diverso. Lo svelamento del linguaggio razzista è un passo fondamentale per contrastare l’egemonia di un diffuso e potente regime discorsivo che solidifica le pseudo ragioni dell’avversione a determinati gruppi etnici. L’esempio classico della frase “Io non sono razzista, ma….” segnala con chiarezza la forza del linguaggio quotidiano a rappresentarsi quali portatori di una verità indiscutibile ed auto-evidente. Il lessico razzista, come affermato in precedenza, diventa sempre meno condannabile, da cui ne consegue che lo sforzo di denunciare quantomeno le sue forme pubbliche sia un impegno costante. Il problema non è di abbracciare un fantomatico “political correct”, spesso grottesco nei suoi risultati, ma di avviare una propedeutica del linguaggio del rispetto e del riconoscimento dell’alterità nelle sue mutevoli declinazioni (non solo etniche).



Perché, come scrivete nel testo, nel razzismo si identifica una forma di "falsa razionalità"?

C. Vercelli: Il razzismo solo in parte nasce dall’ignoranza, come comunemente si vorrebbe invece credere. Semmai, tanto più in una età come quella che stiamo vivendo, è rimesso in circolazione dai processi di globalizzazione. I quali, per la loro natura “liquida”, dal momento stesso che mettono in discussione confini e sovranità, come anche diritti e opportunità, alimentano paure e angosce da sconfinamento. Tutto si fa più fragile e, a tratti, incomprensibile nella percezione dei molti, che subiscono passivamente quanto avviene. Il razzismo, non necessariamente inteso come una dottrina precostituita bensì nella sua natura di interpretazione banalizzante dei processi sociali e storici, dà invece un senso di comprensibilità a ciò che altrimenti rischia di rimanere incomprensibile. Per il fatto stesso di dividere l’umanità, di rifiutarne la varietà, di stabilire delle gerarchie, di legittimare rapporti di potere spesso ingiusti, si configura agli occhi di quanti sono spiazzati e, nel medesimo tempo, disincantati rispetto al mutamento in atto, come uno strumento attivo per “governare” le difficoltà che incontrano. Si tratta di una falsa razionalità perché dietro la plausibilità dei discorsi e delle condotte razziste non c’è il mondo ma una immagine di esso, basata perlopi, se non esclusivamente, sulla paura. Cosa che serve a fare da propellente a condotte fondate sul pregiudizio, nella convinzione che da ciò si possa trarre un beneficio personale. Non di meno, quando tutto ciò si incontra e si traduce in politiche di Stato, come è avvenuto ben più di una volta nel Novecento, il disastro collettivo è dietro l’angolo.


A. Alietti: La risposta a questa domanda si palesa nell’idea, più volte richiamata, che il razzismo prefigura nella sua logica un ordine sociale fondato su una razionalità auto-evidente, indiscutibile, in grado di giustificare il suo affermarsi e il suo riprodursi. La falsa razionalità, inoltre, si manifesta nel momento in cui crea le condizioni per legami sociali fittizi, il più delle volte, basati sul risentimento, dunque su emozioni che poco o nulla hanno a che fare con la riflessione razionale.

In altre parole, la vulgata razzista agisce come collettore di insicurezze, frustrazioni collettive alle quali si fornisce una spiegazione semplice delle cause attraverso l’individuazione dello straniero quale responsabile tout court.