venerdì 10 aprile 2015

Babylon: il cinema, la Tunisia, l'attualità


di Monica Macchi e Paolo Castelletti   (da formacinema.it)



Babylon si configura sia come un esperimento sul linguaggio che come un esperimento di utilizzo del materiale: infatti durante le riprese, i tre registi hanno diffuso in tempo reale tramite Internet video, fotografie, clip audio, testi open source invitando chiunque volesse, a riutilizzarli per creare nuove opere.





Sono state fatte mostre sui diversi lavori e anche un film-concerto di Zied Meddeb Hamrouni in cui ha mixato dal vivo la colonna sonora originale del film. Questo film non recitato può essere dunque considerato un “ipertesto” o come ha scritto Vertov un “film che produce film” nel senso che ogni inquadratura può essere utilizzata per altre ricostruzioni. Del resto, la comprensione dell’immagine dipende dalla correlazione con quelle che la precedono (secondo il cosiddetto “effetto Kulešov”) e questo flusso organizza le percezioni ed i processi interpretativi dello spettatore. Inoltre Babylon sarà proiettato nell'ambito della mostra “Le Pont” (http://www.mp2013.fr/evenements/2013/05/le-pont/) fino al 20 ottobre 2013 al Museo di Arte Contemporanea di Marsiglia (capitale europea della cultura 2013), un evento che ospita più di cento lavori di artisti provenienti da tutto il mondo (tra cui Marina Abramovich e Basquiat) sul concetto di migrazione e “deplacement”.

Quando è scoppiata la rivoluzione tunisina nessuno dei tre registi ha deciso “a caldo” di filmarne gli eventi. E dopo che la loro società di produzione Exit viene saccheggiata dalla polizia il 14 gennaio, decidono insieme al produttore Chawki Knis di andare a Choucha, un campo profughi a sette chilometri dal valico di frontiera di Ras Jdir e a tre chilometri dalla città di Ben Guerdanne (già teatro all'inizio del 2010 di una rivolta). Quasi un milione di persone di tutte le nazionalità e le lingue sono in fuga dai combattimenti tra i rivoluzionari e le truppe lealiste di Gheddafi. In Libia erano infatti presenti moltissimi migranti provenienti soprattutto dall’Africa Sub-Sahariana, che, dal punto di vista interno erano funzionali al sostenimento dell’economia libica e dal punto di vista internazionale erano funzionali al cambiamento della figura di Gheddafi che voleva passare dall’essere leader panarabo all’essere leader panafricano. Ma sin dai primi giorni delle rivolte si scatena la “caccia al nero” definiti “mercenari di Gheddafi” che scappano quindi verso la Tunisia. Il gruppo si propone di essere un “gruppo di auto-creazione” (in riferimento ai “gruppi di auto-difesa” in cui si erano organizzati i tunisini), senza l'idea di girare un film ma con l’intento di “mettere gli occhi su un frammento di Tunisia che ha vissuto un tempo diverso e un evento diverso…siamo stati attratti dal campo così come andava emergendo tra due territori in rivoluzione, in una no revolution’s land….non crediamo che la rivoluzione sia un evento compatto e limitato nel tempo, al contrario è complesso e frammentato”. E mentre sono entrati in contatto col campo, i rifugiati ed il territorio circostante (non solo Choucha ma anche Zarzis, Djerba e Medenine), il film ha iniziato a prender forma, una costruzione formale che però non diventa pura osservazione perché, come hanno ribadito i registi, “non crediamo nel mito dell'oggettività, anche se  non abbiamo mai dato alcuna indicazione alle persone”.
Secondo la descrizione di uno dei registi “Questo film è una tragedia in cinque atti” con una struttura in cinque parti distinte, separate da schermi neri: lo spazio prima dell'arrivo dei profughi in cui ci si sofferma sulla natura (in particolare sul deserto e sugli alberi, che osservano “come l'umanità cresce e poi distrugge se stessa”) e su come essa si trasforma in base al passaggio dei profughi; l'occupazione del campo; l'organizzazione della vita della tendopoli; l'emergere di tensioni e rapporti di potere al suo interno; ciò che resta dopo la partenza dei profughi. Dopo una lunga sequenza iniziale su grotte e vegetazione del deserto incentrata, con primi piani temporali, su uno scarafaggio che fa rotolare una sterpaglia al rumore del vento; iniziano ad arrivare ruspe, tende e telecamere e poi giornalisti, operatori umanitari e profughi che costituiscono la singolarità plurale che attraversa la tendopoli.
Tendopoli che è la vera protagonista del film, un luogo effimero nato dal nulla in mezzo al nulla, destinato ad essere costruito per poi essere rapidamente distrutto, caratterizzato da un movimento incessante dei rifugiati, una galleria di personaggi senza alcun protagonista, che tagliano lo schermo come in una danza…Ed il movimento della danza permea di sé anche una delle sequenze più significative del film: il corteo di protesta dei bengalesi che si muove sinuoso come un serpente passandosi un corpo, non si riesce a capire se morto o svenuto; ma è presente anche nei piccoli spettacoli inscenati per passare il tempo e nella candela sotto la tenda in cui alcuni nigeriani parlano di Dio. Nel film si susseguono così inquadrature di “storie nella storia” che scivolano le une sulle altre senza dare alcun appiglio allo spettatore se non quello di lasciarsi sommergere dal flusso visivo e linguistico di un movimento effimero. Non si tratta quindi di una o più persone che raccontano lo spazio ma di uno spazio che racconta le persone inserite in un ambiente da cui traggono significato e che esalta le potenzialità delle immagini liberate dalla rigidità della parola. La scelta di raccontare attraverso la massa porta i registi ad utilizzare il campo lungo, le ombre e le sagome sfocate (come dimostra anche la locandina) per connotare esteticamente l’alienazione nella massa, alternandole sapientemente a zoom su dettagli che raccontano la vita nel campo: i momenti della preghiera e le lunghe code per il cibo rallentano il film e ben rappresentano la lentezza, fluidità e precarietà del destino e della permanenza dei migranti. Infatti il campo rappresenta un non-luogo di passaggio, anche se in realtà, a Choucha ci sono ancora diverse persone riconosciute come profughi che sono in attesa di venir “ricollocati” e 300 deboutés cioè “non-rifugiati” esclusi dal sistema di protezione ONU, che in un vero e proprio limbo giuridico aspettano lo smantellamento del campo previsto per il prossimo 30 giugno. Del campo di Choucha si è molto discusso anche nel recente “Forum di Tunisi” dove sono stati sollevate molte criticità tra cui la mancanza di assistenza giuridica nella compilazione delle domande, l'assenza di una commissione di controllo e le interferenze delle rappresentanze diplomatiche di Ciad e Nigeria; l’Onu da parte sua ha replicato proponendo ai deboutés il rimpatrio volontario assistito con pagamento del viaggio di ritorno e di una buonuscita o, in alternativa, la permanenza in territorio tunisino, con la possibilità di percorsi di inserimento professionale.
Quando la maggior parte dei profughi se ne va, resta la tendopoli con il suo pavimento cosparso di spazzatura e con sacchetti di plastica che volano al vento, non una mera registrazione meccanica ma una costante colonna sonora che ha la capacità di esaltare le espressioni delle immagini. E visto che ogni opera d’arte si basa su una gerarchia dei mezzi utilizzati, il suono è qui al servizio di immagini ed azioni che prescindono dalla parola: del resto come ha scritto Arnheim: “Il dialogo costringe l’azione visiva a mettere in primo piano l’uomo che parla, otticamente sterile”. E l’importanza dei suoni emerge nel lungo lavoro di post-produzione: le riprese sono durate tre settimane con una trentina di ore di girato ma ci sono voluti circa dieci mesi per il montaggio. In
 
 
parte per problemi finanziari (il film è interamente auto-prodotto), in parte perché non volevano essere risucchiati nel filone “primavera araba”, (ecco cosa mi ha scritto Ala Eddine in uno dei primi scambi di mail, presentando il film: Je note que notre film est un peu “loin” des sujets traitants du “Printemps Arabe”. Veuillez ne pas l'inclure comme un film “direct” sur “la révolution” tunisienne.) ma soprattutto per costruire il film seguendo il ritmo e la musicalità delle voci ed il lato crudo dei suoni della natura fa provare la sensazione di essere in un territorio inesplorato e sottolinea la differenza con le produzioni televisive.Babylon rompe infatti con la tradizione del cinema tunisino mainstream per queste scelte estetiche radicali, per la diffusione del materiale via Internet, per il fatto di essere autoprodotto senza sussidi statali ma anche per l’abbandono delle tematiche ormai cristallizzate (la vita sociale nella vecchia Medina, la famiglia conservatrice…) ed incentrate su tematiche sociali, che erano esattamente le stesse delle produzioni televisive delle “musalsalat” cioè delle telenovele mandate in onda durante il Ramadan per affrontare una spinosa questione politica. Il connubio tra l’accesso alle nuove tecnologie e la caduta di Ben Ali ha totalmente cambiato lo scenario sbloccando lo spazio pubblico caratterizzato dalla progressiva chiusura delle sale cinematografiche (dalle quasi duecento degli anni Settanta ne sono sopravvissute una manciata): ad esempio facendo rivivere la tradizione del cinema itinerante e realizzando una Carovana del film documentario o molti festival come quelli di Rgueb o di Hergla. Ma soprattutto sono stati girati diversi film audaci e innovativi che hanno fatto molto discutere: tra questi “Anbou El Fosfato” di Samy Tlili sui lavoratori del bacino minerario di Redeyaf (e per poterlo far vedere agli abitanti della regione il regista e i suoi collaboratori hanno dovuto personalmente riaprire una sala chiusa da quasi trent’anni) e “Ni Allah, ni maître” di Nadia Al-Fani (dopo scontri, polemiche e minacce di morte, la regista ha deciso di cambiare il titolo in “Laicitè, inshallah”) sul ruolo della laicità come garante della diversità e della libertà di coscienza in una democrazia. Ma questa situazione di effervescenza e creatività cinematografica potrebbe cambiare a breve: è appena stata presentata una proposta di “Riforma per lo sviluppo del cinema e dell'audiovisivo in Tunisia” che prevede la creazione di uno sportello unico per il cinema e l’inasprimento dei requisiti richiesti alle case di produzione per accedere a forniture o sussidi. Chi contesta la legge sostiene che abbia un’ispirazione politica perchè il Governo sarebbe terrorizzato da questi nuovi cineasti che, come nel caso di Babylon, in piena autonomia girano video senza richiedere autorizzazioni o sovvenzioni statali e li condividono tramite Internet rendendoli immediatamente fruibili. Del resto che giustificazione artistica potrebbe avere la norma secondo cui le case di produzioni possono girare lungometraggi solo dopo aver girato un “numero sufficiente” di corti?!? E possono collaborare a produzioni straniere solo dopo aver raggiunto una “certa notorietà”?!? Gli oppositori puntano anche il dito sugli autori del progetto, definiti “un’accozzaglia di dinosauri e burocrati”, coinvolti nella degenerazione del cinema in Tunisia e che ora starebbero per completare l’opera svendendo quel che ne resta alla televisione e agli sponsor dei multiplex.