martedì 7 aprile 2015

Palestina, il voto italiano e le due letture dalla Terrasanta. Saeb Erekat e Yael Dayan: bene il riconoscimento. Ma Israele plaude per il contrario




di Umberto De Giovannangeli, L'Huffington Post

 


La “limatura” dei verbi, l’edulcorazione di alcuni passaggi, le due mozioni che sembrano eludersi a vicenda, tutto questo relativizza ma non cancella la sostanza politica dell’evento consumatosi oggi a Montecitorio: dopo Francia, Spagna, Gran Bretagna, Danimarca, Portogallo, Irlanda, Belgio, Svezia, Lussemburgo, anche il Parlamento italiano si è espresso per il riconoscimento dello Stato di Palestina. Decisione sofferta, ritardata, con contraddizioni interne, ma la cui valenza politica, oltre che simbolica, non sfugge al Governo israeliano che puntava molto sull’ "amico Matteo” perché l’Italia non si unisse, neanche con qualche distinguo filoisraeliano, al coro dei “filopalestinesi”.
Così non è stato. O almeno questa è la lettura di chi vede il bicchiere mezzo pieno (sul fronte palestinese) rispetto al voto di Montecitorio. Quel voto intenderebbe rappresentare anche un sostegno a “Lady Pesc”, Federica Mogherini, che non ha mai nascosto la sua speranza di veder nascere uno Stato palestinese, a fianco d’Israele, durante gli anni del suo mandato di Alto Rappresentante della Politica Estera e di Sicurezza dell’Unione Europea.
Il voto porta con sé strascichi di politica interna, di letture “retrosceniste” sulle dinamiche interne alle varie anime del Partito Democratico, sulla spaccatura nella maggioranza poi ricomposta, almeno all’apparenza, con il parere favorevole del governo a due mozioni: quella Pd, sostenuta anche da Sel, che ha ottenuto 300 voti favorevoli e 45 contrari; e quella stilata da Nce e Ap-Sc, approvata con 237 voti favorevoli e 84 contrari, e che ha già aperto discussioni sul “messaggio” che la fronda di sinistra pieddina ha inteso lanciare al premier “decisionista”.
Strascichi, per l’appunto. Perché la sostanza è ben altra e investe il senso di marcia della nostra politica estera, soprattutto nell’area per noi più nevralgica, sul piano geopolitico e per la difesa degli interessi nazionali: il Vicino Oriente. Un Vicino Oriente in fiamme: dalla Libia alla Siria, dall’Iraq alla Palestina. Ad affermarsi, nel mondo arabo, sono “Generali” o “Califfi”, mentre in difficoltà, se non in rotta, sono le leadership moderate. Come quella del presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). L’ "intifada diplomatica” da lui voluta era ed è anche una risposta alle spinte militariste che prendono corpo dall’azione dei “lupi solitari” palestinesi e, soprattutto, dall’affermarsi anche in Cisgiordania e a Gaza dei gruppi salafiti vicini allo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.
"C’è il diritto dei palestinesi a un loro Stato e il diritto dello stato di Israele a vivere in sicurezza di fronte a chi per statuto vorrebbe cancellarne l’esistenza. La soluzione è quella dei due Stati, per la quale la comunità internazionale si pronuncia da tempo, il che vuol dire il diritto dei palestinesi a un loro Stato e il diritto dello Stato di Israele a vivere in sicurezza, di fronte a chi vorrebbe addirittura per statuto cancellarne la stessa esistenza", ha rimarcato il titolare della Farnesina, Paolo Gentiloni, nel suo intervento in Aula.
Il testo presentato dai democratici impegna il governo "a continuare a sostenere in ogni sede l'obiettivo della Costituzione di uno Stato palestinese che conviva in pace, sicurezza e prosperità accanto allo Stato d'Israele, sulla base del reciproco riconoscimento e con la piena assunzione del reciproco impegno a garantire ai cittadini di vivere in sicurezza al riparo da ogni violenza e da atti di terrorismo". C'è quindi l'impegno per il governo a "promuovere il riconoscimento della Palestina quale Stato democratico e sovrano entro i confini del 1967 e con Gerusalemme quale capitale condivisa, tenendo pienamente in considerazione le preoccupazioni e gli interessi legittimi dello Stato di Israele".
Un messaggio, quest’ultimo che intendeva essere rassicurante per il governo israeliano. E in parte c’è riuscito, vista la prima reazione a caldo dell’Ambasciata d’Israele:
Accogliamo positivamente – recita una nota dell’Ambasciata - la scelta del Parlamento italiano di non riconoscere lo Stato palestinese e di aver preferito sostenere il negoziato diretto fra Israele e i palestinesi, sulla base del principio dei due Stati, come giusta via per conseguire la pace. Così come scritto all'inizio della mozione: "La soluzione potrà essere raggiunta soltanto attraverso i negoziati". Tutti i governi d'Israele, a partire dagli accordi di Oslo, hanno accettato e fatto propria l'idea di due Stati per due popoli. Dopo le elezioni e la formazione di un nuovo governo in Israele a marzo , è necessario che i palestinesi decidano di tornare al tavolo delle trattative senza precondizioni, per portare avanti la pace e la sicurezza fra i due popoli”.
Resta il fatto che la nota dell’Ambasciata israeliana glissa sul fatto che, nella mozione Pd, si fa esplicito riferimento a uno Stato palestinese “con Gerusalemme quale capitale condivisa” e a uno Stato “sovrano entro i confini del 1967”: due punti su cui il governo israeliano in carica si è detto sempre contrario.
Di segno opposto a quella della sede diplomatica dello Stato ebraico a Roma, sono le reazioni, e le letture, date a caldo dai palestinesi e dagli israeliani aperti sostenitori del dialogo. “Il voto del Parlamento italiano è un atto politico importante, che può dare un nuovo impulso al negoziato e far capire ai governanti israeliani che l’Europa intende giocare un ruolo da protagonista nello scenario mediorientale”, dice all’Hp il capo negoziatore dell’Anp, Saeb Erekat. “Il problema - aggiunge Erekat – non è dichiararsi a parole favorevoli al negoziato, ma esserlo con i fatti. E ogni atto compiuto dai governanti israeliani è andato nella direzione opposta: dalla colonizzazione dei Territori all’assedio di Gaza”.
Sulla stessa lunghezza d’onda è Yael Dayan, scrittrice israeliana, più volte parlamentare laburista, una delle 800 personalità israeliane firmatarie di un appello rivolto all’Europa perché riconoscesse lo Stato di Palestina. “Apprezzo la scelta del Parlamento italiano – dice la figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan, raggiunta telefonicamente a Tel Aviv dall’Hp – e da israeliana che ha combattuto per la sicurezza del proprio Paese, non la considero un atto di ostilità, ma al contrario di amicizia verso Israele. Penso questo perché sono convinta che la nascita di uno Stato palestinese non rappresenti un cedimento al “nemico” ma un investimento sul futuro per Israele. Un futuro che le destre mettono a repentaglio, riproponendo una politica fondata su una cultura militarista, cavalcando l’insicurezza e vendendo una illusione: quella di una pace a costo zero”.
È terribile odiare ed essere odiati per così tanto tempo. È estenuante occupare ed essere occupati per così tanto tempo. Questa liberazione riguarda anche noi israeliani”, le fa eco David Grossman, tra i più affermati scrittori israeliani, anche lui, come Yael Dayan, tra i promotori dell’appello all’Europa.
Resta la rabbia dei falchi. Il pronunciamento del Parlamento italiano interviene nel vivo della campagna elettorale in Israele – si vota il 17 marzo – e a pochi giorni dal viaggio negli Stati Uniti di Benjamin Netanyahu – parlerà al Congresso ma non sarà ricevuto dal presidente Barack Obama – e stride con quanto sostenuto dai leader delle destre dello Stato ebraico, decisamente ostili, per ragioni ideologiche o di sicurezza, alla nascita di uno Stato palestinese, con o senza negoziati diretti. Un tema, questo, che è parte della campagna elettorale in corso, nella quale le destre sottolineano che non c’è differenza fra Hamas e l’Isis, e che Abu Mazen ha scelto di “governare con i terroristi (Hamas, ndr) sacrificando la pace”.
Sul versante opposto, il leader dei Laburisti, Yitzhak Herzog, mette in evidenza come “le chiusure di Netanyahu hanno rafforzato gli estremisti nel campo palestinese e incrinato le relazioni tra Israele e l’Amministrazione Obama”. Herzog ha anche annunciato che, se diventerà primo ministro, si farà promotore di un “piano Marshall” per la smilitarizzazione e la ricostruzione di Gaza.
In proposito, a sei mesi dal cessate il fuoco che ha messo fine all’operazione “Protective Edge”, Oxfam ha lanciato l’allarme sulla disperata situazione in cui ancora versano gli 1,8 milioni di persone che vivono nella Striscia, a causa delle carenze e progressive riduzioni delle quantità di materiali da costruzione in entrata a Gaza. A farne le spese sono le circa 100.000 persone, di cui la metà bambini, che ancora sono costrette a vivere in rifugi e sistemazioni temporanee, mentre decine di migliaia di famiglie vivono in abitazioni gravemente danneggiate dai bombardamenti della scorsa estate. Senza la fine del blocco israeliano a Gaza - avverte l’Ong con sede centrale a Londra - ci vorrà oltre un secolo per completare la ricostruzione di case, scuole e ospedali.
Herzog – un dei leader del “Blocco sionista” di centrosinistra - ha anche sottolineato che “pace e sviluppo degli insediamenti sono tra loro inconciliabili”. L’esatto opposto di ciò che pensano, e fanno, le destre israeliane. Secondo uno studio dell’associazione israeliana Peace Now, i bandi per le nuove costruzioni sono triplicati dal 2013 rispetto al precedente governo, sempre guidato da Netanyahu. Sono state fatte 4.485 gare d’appalto nel 2014 e 3.710 nel 2013 (2007 erano state meno di 900). L’incremento demografico annuale dei coloni è di circa il 5,5%, contro l’1,7% degli altri israeliani.
Le considerazioni avanzate dal leader laburista israeliano sullo stato (pessimo) dei rapporti tra Netanyahu e Obama trovano conferma nelle parole della la consigliera per la sicurezza nazionale del presidente Obama, Susan Rice, secondo cui la visita che il premier israeliano farà a Washington il 3 marzo sarà "distruttiva". E a Netanyahu, che rilancia la linea “interventista” contro l’Iran, il segretario di Stato Usa, John Kerry, risponde seccamente: ci ha spinto a invadere l’Iraq, visto com’è finita?
Per il riconoscimento dello Stato di Palestina si batte da tempo Mairead Corrigan Maguire, premio Nobel per la pace nel 1976: “Se i governi europei avessero un sussulto d’orgoglio, se credessero davvero a quei principi universali di cui si fanno vanto – afferma Maguire – allora non dovrebbero perdere un attimo in più e seguire l’esempio svedese, compiendo un atto riparatorio che sarebbe dovuto accadere già da tempo: riconoscere lo Stato palestinese. Per farlo non c’è bisogno del “permesso” d’Israele”.