venerdì 22 maggio 2015

25 anni di mondo dagli schermi di Milano


di Ivana Trevisani, da 25 anni con piacere fedele al Festival


 

Il “Festival del Cinema Africano d'Asia e America Latina” anche quest'anno si è riaffacciato agli schermi milanesi e si è presentato con un compleanno speciale, venticinque anni, un quarto di secolo, di vita sua e di quella del pubblico che con affetto lo ha seguito lungo tutto questo periodo e ancora lo segue.

Non a caso il termine Vita, perchè di questo si tratta e ogni anno puntualmente si ripete: incrocio di vite, delle organizzatrici e degli organizzatori, delle persone sedute davanti allo schermo o davanti alle registe ai registi negli incontri aperti, e quelle restituite dallo schermo, più o meno lontane nello spazio e a volte nel tempo, ma riconsegnate nel presente dal loro dipanarsi nelle trame di film, lunghi o corti, e documentari.

Già dall'apertura si poteva intuire la scelta, anche per quest'anno, di condurci nella storia delle quotidianità, argomento poco visitato, anzi spesso ignorato dall'informazione formale. Ha aperto il festival il lungometraggio “Taxi Teheran” dell'iraniano Jafar Panahi, Orso d'oro all'ultima Berlinale; il regista che non può lasciare il suo Paese per vent'anni a causa del suo impegno di dissenso politico, diventando lo stesso taxista- personaggio del film, riesce attraverso i variegati passeggeri che si susseguono e dei loro squarci di storie comuni, a darci conto delle storture di un regime soffocante.

Immagini inattese della Tunisia, nel quotidiano pressochè sconosciuto in cui non sono i fantasmi del terrorismo ad agitare le vite, quanto problemi ordinari, ma non meno difficili da reggere, sono state offerte da “Le challat de Tunis” della regista Kaouther Ben Hania, che con sarcasmo e ironia, attraverso la ricostruzione della vicenda dell'aggressore seriale “lametta” (challat, appunto) restituisce i conflitti di genere nella società tunisina. Immagini inattese sono state date anche dal regista Lofti Achour, che con il cortometraggio “Père” affronta il tema della paternità, vera o presunta, una questione difficile da affrontare e gestire non solo nella cultura e società arabe, del resto.    



Restando nel vicino scenario di un'altra delle rivoluzioni che nella primavera del 2011 hanno scosso parte del mondo arabo mediorientale, il giovanissimo cineasta egiziano Yasser Shafie grazie al suo corto ma incisivo “The dream of a scene (Il sogno di una scena)”, rende con uno sguardo maschile di apprezzabile sensibilità, il forte radicamento - più culturale che religioso nel mondo arabo - come un nodo più stretto del nodo dei capelli femminili e del loro significato profondo nelle stesse donne. E non è tuttavia mancato il richiamo all'ironia che anima la cultura egiziana, affidato ai tredici minuti del cortometraggio del cairota Khaled Khella “130 km to Heaven (A 130 km dal paradiso), che riesce con umorismo solo velatamente amaro a sbugiardare l'abbaglio di stili di vita dorata veicolato da certo turismo occidentale.

Passage à niveau (Passaggio a livello)ci sposta poco più in là, sia geograficamente che tematicamente: l'algerino Anis Djaad infatti ci cala nel dramma della perdita di un lavoro più che trentennale e accomuna i due personaggi del cortometraggio nella scala socioeconomica, come ultimo e penultimo.

Restando nella stessa area geografica, ancora grandi traversie che sfiorano e a volte intrecciano la tragedia, in piccole comuni storie di vita nella realtà sia rurale che urbana del Marocco odierno: ce le hanno presentate la regista Tala Hadid con il suo The narrow frame of midnight (La cornice stretta della mezzanotte)che affrontando un dramma dilagante nel paese, patito da molte adolescenti, riesce ad incuneare nel racconto la connivenza e la responsabilità di deprecabili trafficanti europei. E “L'homme au chien (L'uomo con il cane)del regista Kamal Lazraq che mostra la crudeltà umana alimentata dal degrado sociale di ghetti ai margini nientemeno che della capitale Casablanca.

Ci spostiamo in una dimensione geografica molto lontana, nel Sudafrica del cortometraggio “Lazy Susan (Vassoio girevole)di Stephen Abbott, ma in una dimensione di difficoltà umana tra l'arroganza di un cliente e un meschino furto degli spiccioli di mance quotidiane. Sempre nel sud dell'Africa, in Angola, il cortometraggio “Excuse Me I Disappear (Scusatemi se sparisco)di Michael Mac Garry, già nel titolo anticipa la cifra di assurdità della non esistenza di un anonimo spazzino comunale, che scompare nell'anonimia e sperequazione socio economica del quartiere irreale in cui il lavoro lo porta ogni giorno.

I dodici minuti di “Discipline (Disciplina) dello svizzero-egiziano Christophe M. Saber, riportandoci appena oltre il nostro confine verso nord, rendono con straordinaria efficacia la babele non solo linguistica nel microcosmo svizzero di un supermercato, dove le incomprensioni linguistico-culturali generano fraintendimenti che alimentano una rissa dall'evoluzione esponenziale.

The Monk (Il monaco)del birmano The Maw Naing, sembra spostarci in una dimensione quasi irreale di ascetismo, ma le vicende umane oltre che spirituali del monastero nel cuore della foresta birmana e l'inatteso, breve incontro con la realtà urbana, lo rendono più concreto.

E per concludere, lasciandoci aperti al proseguo delle vite, i film hanno mostrato l'irrisolto di tragedie, troppo spesso archiviate o mal-trattate dal sistema mediatico, restando ferite non riemarginate e pronte a riaprirsi, seppure in forme diverse, attraverso l'intero mondo: dalla Haiti di “Meurtre à Pacot (Omicidio a Pacot)di Raoul Peck che scavando nelle macerie e nei sentimenti dei personaggi, ci rammenta di come le catastrofi ambientali, il terremoto nella fattispecie, colpiscano non solo nel momento dello scoppio, ma si insinuino tra le crepe dei muri e delle vite che vi si aggirano, mettendo a nudo i risvolti peggiori delle persone. Alle zone dell'Africa subsahariana già attraversate da sanguinosi conflitti interni ormai dimenticati dall'attenzione mediatica, in cui il cortometraggio “Umudugudu! Rwanda 20 ans après Umudugudu! Rwanda 20 anni dopo)dell'italiano Giordano Cossu ci conduce nell'esplorazione delle situazioni latenti e non concluse di un paese uscito dalla tragedia ma non dal rischio del suo riesplodere. O il lungometraggio del burkinabé Sékou Traoré “L'oeil du cyclone (L'occhio del ciclone), presentato in prima europea, che ci ricorda le bombe ad orologeria degli ex bambini soldato, diventati adulti mai recuperati dal danno del condizionamento che hanno subìto. Per arrivare, infine, purtroppo ancora nel presente, con le dolorose immagini delle “Letters from Al Yarmouk (Lettere da Al Yarmouk)del palestinese Rashid Masharawi, che ci accompgnano “oltre il disumano” ,come affermato lo scorso aprile dall'UNHCR, in quel tragico quotidiano della situazione tutt'ora aperta nel campo profughi palestinese dell'omonimo quartiere di Damasco, assediato da fame, da bombe e dalla morte ancor prima che dai criminali di Daesh.

L'augurio quindi che possiamo fare e farci, in questo significativo compleanno, è che il Festival Cinema Africano d'Asia e America Latina di Milano, possa continuare a regalarci per molti altri compleanni, oltre al valore artistico delle opere scelte, anche quello del suo impegno politico nel restituirci, come anche quest'anno ha fatto, un quotidiano che va oltre confini, muri, barriere geografiche, culturali o mentali e rende simile e vicina, in questo difficile passaggio della storia, tutta la comune umanità.