mercoledì 27 maggio 2015

La vita non facile dei diritti riscoperti dalle sentenze



di Luigi Ferrarella (da “Corriere della sera” 15 maggio 2015)





Quanti diritti ci possiamo permettere?


Quanti diritti ci possiamo permettere? Quale dose di giustizia può tollerare il nostro assetto sociale ed economico? Fino a pochi anni fa una domanda simile sarebbe suonata bestemmia. Ora, invece, viene implicitamente declinata ogni volta che dalle Corti (Corte costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, Corte di cassazione) arriva una sentenza all’incrocio di un dilemma: adesso tra rivalutazione delle pensioni e vincoli di bilancio, ma già in passato tra danni dell’inquinamento Ilva alla salute di Taranto e destino degli operai e dell’acciaio italiano, e prima tra ritmi giudiziari delle inchieste anticorruzione e invece esigenze extragiudiziarie di far aprire in tempo Expo 2015, o prima ancora tra impopolarità del tema carceri e condizioni inumane di vita di chi sta in prigione. E si può già scommettere riaccadrà nelle prossime sentenze che scioglieranno nodi sulle questioni di bioetica, o che metteranno il dito nel contrasto tra irrazionalità fiscali e esigenze dell’erario, o che incroceranno assetto degli statali e nuove regole per i dipendenti pubblici.
Sotto sotto, è come se ogni volta ribollisse questo non detto: quanti diritti ci possiamo permettere? Un retropensiero talmente sdoganato da nutrire reazioni sempre più insofferenti alle conseguenze di sentenze ripristinatorie di diritti, che sino a poco tempo fa sarebbero state percepite come ovvie riaffermazioni (di eguaglianza, dignità, equità sociale), e che invece adesso vengono vissute quasi come invasioni di Corti debordanti nel campo della politica, tapina perché commissariata dallo scippo giudiziario della sua facoltà di decidere tra più alternative possibili e di imporre questa scelta senza lacci e lacciuoli.
È un’insofferenza che trasuda già dalle parole usate da governo e parlamentari per definire la sentenza della Consulta sulle pensioni: «danno alla credibilità del Paese», verdetto che «scardina», decisione che (se applicata in toto) causerebbe conseguenze «immorali». Così, dopo ciascuna di queste sentenze, sempre più palese scatta il riflesso automatico di non applicarle, oppure — se proprio non è possibile disattenderle completamente — almeno di contenerle, di arginarne la portata, di neutralizzarne gli effetti, di mitridatizzarne le conseguenze. Plastico l’esempio delle condanne inflitte dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo all’Italia per le condizioni inumane e degradanti della detenzione nelle carceri: sentenze alle quali in questi mesi il governo ha ritenuto di adeguarsi con una legge su piccoli «rimedi compensativi» (8 euro al giorno per il passato, oppure lo scomputo di un giorno ogni dieci sulla pena ancora da scontare) dalle maglie normative però talmente strette che l’85 per cento delle domande avanzate a fine 2014 era stata dichiarata inammissibile, e soltanto l’1,2 per cento di richieste di risarcimento era stato accolto. E qualcosa del genere, in attesa che accada per le pensioni, sta avvenendo già in parte con la legge sulla tortura, in teoria introdotta sull’onda di un’altra condanna dell’Italia da parte di Strasburgo (stavolta per il G8 di Genova), ma in realtà parcheggiata (dopo approvazione in prima lettura) in un ramo del Parlamento con un testo di compromesso al ribasso.
Cambiano infatti i casi, ma il denominatore comune resta che la giurisdizione è sottoposta a una pressione sociale molto più insidiosa di passate grossolane ingerenze politiche: il mordere della crisi economica, la coperta corta dei bilanci statali, l’urgenza della disoccupazione, la disabitudine alla ricerca di soluzioni che non siano vendibili in pochi slogan, il fastidio per ciò che inevitabilmente complesso non sia tagliabile con l’accetta, tutto congiura a domandare alle Corti superiori (come in fondo già ai magistrati nei gradi inferiori) di subordinare le proprie decisioni a
«compatibilità» con equilibri di volta in volta politici-sociali-economici e di assumere come parametro la «sostenibilità» dei propri atti. Con la conseguenza che non sembra più strano dare esecuzione a queste sentenze soltanto se e nella misura in cui esse siano compatibili con i bilanci statali, o appaiano socialmente accettabili, o risultino «digeribili» dalle esigenze delle imprese, o siano in linea con il momento politico, o siano empatiche con le emozioni dei cittadini.
Il che illumina due sottovalutazioni. La prima, nel presente, è che il ritardo con il quale il Parlamento sta mancando di eleggere i due giudici costituzionali di propria competenza influisce e di fatto altera la vita della Consulta, dove indiscrezioni attribuiscono ad esempio la contestata sentenza sulle pensioni al voto con valore doppio del presidente tra 6 favorevoli e 6 contrari. La seconda sottovalutazione, in prospettiva, è di quanto la combinazione tra nuova legge elettorale e nuovo Senato possa sbilanciare, a favore delle artificiosamente rafforzate maggioranze politiche di turno, le quote di giudici costituzionali e di componenti laici che spetta al Parlamento eleggere rispettivamente alla Consulta e al Consiglio superiore della magistratura.