sabato 30 maggio 2015

STAY HUMAN – AFRICA

La rubrica di Veronica Tedeschi


La violenza sessuale come arma di guerra, il caso del Congo



Qui in Congo le donne sono state stuprate tre, quattro, dieci volte da uomini diversi, più che uomini bisognerebbe chiamarli animali. Finora ne abbiamo curate 384 ma continuano ad aumentare. Parecchie, atterrite dalla violenza, sono fuggite nella giungla e hanno paura di tornare per farsi curare” (Giorgio Trombatore, capomissione e incaricato della sicurezza dell’organizzazione non governativa americana IMC - International Medical Corp).



Durante la guerra del 1998, decine di centinaia di persone furono violentate nella Repubblica Democratica del Congo; si parla di più di 200.000 sopravvissuti a stupri. Goma fu il campo di battaglia maggiore durante la prima e la seconda guerra del Congo e, nonostante gli accordi di pace tra il Governo della Repubblica Democratica del Congo ed i governi dei Paesi confinanti Uganda, Ruanda e Burundi, sono state perpetrate continue violenze sulla popolazione civile. Queste violenze sono state definite “arma di guerra”, atti designati a sterminare la popolazione; lo stupro è stato ed è ancora oggi una semplice ed economica arma su tutti i fronti, più facilmente ottenibile di proiettili e bombe. Nonostante il processo di pace, cominciato nel 2003, l’aggressione sessuale da parte di soldati di gruppi armati e dell’esercito nazionale, continua in tutte le province orientali del Congo.

Lo stupro di guerra disumanizza, umilia e disonora. È un modo per negare l’umanità della donna come portatrice della vita; le milizie sia governative che ribelli, oltre a saccheggiare e distruggere paesi, villaggi e città che trovano sul loro cammino, si lasciavano alle spalle numerose e devastanti violenze sessuali compiute su donne e bambine.

In Congo furono documentati più di 500 stupri nell’agosto del 2010, conclusi con una semplice richiesta di scuse da parte di Atul Khare, il funzionario dell’Onu che fallì nel tentativo di proteggere la popolazione dalle brutalità messe in atto dai soldati e dall’esercito.

Il governo congolese ha ben presente la situazione delle donne nel suo Paese, è cosciente dei rischi che queste puntualmente incontrano nella vita sociale e familiare ma, nonostante questo, non riesce a creare un sistema di protezione adeguato per costituire una società civile in cui ogni donna possa vivere senza paura. Un esempio su tutti: la Repubblica del Congo, per una tassa non pagata, ha bloccato i fondi del Panzi Hospital, ospedale sito a otto chilometri dalla città di Bukavu. Il fondatore di tale struttura, Denis Mukwege, è l’unico dottore congolese che aiuta le donne vittime di stupri di guerra e per tale motivo risulta scomodo al governo. In un’intervista del 2014 le sue parole colpirono molto la platea: “Salviamo le donne il cui corpo è trasformato in campo di battaglia. La violenza sessuale di gruppo è un atto pianificato di guerra, per conquistare territorio”. Questo comportamento della Repubblica del Congo rappresenta un segnale di totale disinteresse da parte dello Stato che preferisce colpire un personaggio come il Dott. Mukege piuttosto che cercare di capire e affrontare in modo deciso quanto effettivamente sta accadendo.


A livello nazionale la situazione è, quindi, critica, gli stupratori operano nell’impunità totale; le donne che subiscono le violenze si trovano davanti membri delle forze dell’ordine che sono gli stessi perpetratori della violenza.

A livello internazionale la situazione sembra migliore: la Commissione Africana dei diritti umani e dei popoli, pur senza approfondire il ragionamento giuridico, ha dichiarato lo stupro una forma di tortura contraria a quanto disposto dall’art. 5 della Carta Africana dei Diritti umani e dei popoli. Questo ci fa tirare un sospiro di sollievo, se solo non sapessimo che, purtroppo, la “forza” e il lavoro della Commissione è pressoché nullo all’interno del continente africano.

La Commissione non ha alcun potere per assicurare l’attuazione di quanto da essa indicato, che rimane pertanto affidata alla buona fede degli Stati. L’unica misura possibile è l’invio da parte della Commissione di “richiami periodici” agli Stati responsabili di violazioni di diritti riconosciuti nella Carta Africana dei Diritti umani e dei popoli. L’evidente insufficienza di tali strumenti procedurali ha spinto gli Stati africani a redigere un Protocollo ad hoc alla Carta africana, adottato a Ouagadougou (Burkina Faso) nel giugno 1998 ed entrato in vigore il 25 gennaio 2004. Gli Stati che hanno ratificato il Protocollo per l’istituzione della Corte africana dei Diritti umani e dei popoli ad oggi (maggio 2015) sono 27. La mole di lavoro di tale istituzione, in questi primi anni di operato, risulta minima e quasi nessuno degli Stati africani riconosce realmente l’importanza e il potere degli atti da essa emanati.

Come si può desumere da questa sintetica ricostruzione, il Congo, come la maggior parte degli Stati africani, vede da sempre fianco a fianco i problemi derivanti da una legislazione interna inesistente e una legislazione internazionale che non è in grado di reagire per sconfiggere i reali problemi dell’Africa.