martedì 16 giugno 2015

Riscatto mediterraneo. Voci e luoghi di dignità e resistenza






E' giunto alla sua seconda edizione il saggio di Gianluca Solera, dal titolo Riscatto mediterraneo. Voci e luoghi di dignità e resistenza (Nuovadimensione Editrice) mostra e approfondisce come, in quest'area del mondo, sia in atto un grande cambiamento, con il tentativo di affermare un nuovo progetto culturale, sociale e politico. Ma per capire bene di cosa si tratti, abbiamo rivolto alcune domande all'autore e lo ringraziamo per le sue parole.




Su quali basi si potrebbe ipotizzare un nuovo percorso politico e sociale nei Paesi mediterranei delle rivoluzioni?



Credo che dobbiamo pensarci in termini transmediterranei, per costruire un percorso politico e sociale comune verso una cittadinanza mediterranea. Non pensiamoci come «Paesi delle rivoluzioni», da un lato, e «Paesi della stabilità», d’altro lato; pensiamoci come «Paesi in transizione», interessati da una crisi di Sistema diffusa, e che hanno un’opportunità storica di costruire uno spazio e un destino comuni, rimettendo in discussione le nostre rispettive perifericità. Più periferie che si guardano negli occhi e lavorano insieme ridiventano un centro. Parlare oggi di integrazione mediterranea è purtroppo ancora politicamente scorretto, per questo abbiamo bisogno di partire «dal basso», attraverso iniziative cittadine che lavorano per un Mediterraneo quale spazio di pace, sviluppo, giustizia sociale e convivenza. Abbiamo bisogno di accordare una tabella di marcia politica e culturale, nella quale integrare quegli organismi e quelle iniziative associative che credono nella visione del Mediterraneo come «casa comune». Il processo è advocacy - oriented, mira a coltivare una cultura di pensiero e azione comuni a tutti i cittadini del Mediterraneo, e persegue l’obiettivo di creare una rete della società civile trans-mediterranea, con le sue strategie e i suoi strumenti di azione.



Qual è il suo concetto di «dialogo»?



Per me «dialogo» significa relativizzare le nostre identità e cercare ciò che ci accomuna nel bene (valori comuni, buone pratiche, buone politiche) e nel male (cause strutturali di instabilità, ingiustizie, mali sociali atavici). Cosa voglio dire con questo? Che un dialogo interculturale che pone al centro dell’attenzione le nostre identità non fa altro che legittimare l’utilizzo manipolativo delle stesse. Con la Primavera araba ci siamo resi conto che il problema, la sorgente delle tensioni e delle divisioni non era il fatto che fossimo diversi, con identità religiose e culturali diverse; il problema erano gli squilibri nelle garanzie cittadine, le differenze nell’accesso ai diritti sociali, economici, politici e ambientali. Ovvero, la rabbia popolare delle masse arabe e le proteste dei giovani europei che puntavano il dito sulla crisi di legittimità del Sistema nei loro Paesi hanno mostrato che lo scontro vero non è tra cristiani o musulmani, secolari o religiosi, bensì tra ricchi e poveri, potenti e oppressi. Mentre si brandiva l’arma del dialogo tra le culture, non ci si accorgeva che la cultura si era già decomposta. Il sociologo francese Alain Touraine lo spiega bene, denunciando il fatto che la cultura ha perso la sua qualità di sistema di interpretazione della realtà perché la globalizzazione si è appropriata dello spazio tecno-economico, contribuendo a frammentare il mondo in identità. Le culture non interferiscono più nei termini della produzione, del consumo e della razionalizzazione sociale, anzi, questi ultimi sembrano essere diventati la chiave esclusiva del progresso umano. È tra «culture» che interpretano la realtà che dobbiamo costruire il dialogo.



In quali Paesi si riscontra un nuovo accesso ai diritti?




Sicuramente nella Tunisia attuale, o nella Libia e nell’Egitto pre-scontro secolari – islamici, in cui si moltiplicò l’associazionismo e la stampa libera. Preferirei però parlare di affermazione di una nuova «cultura diffusa dei diritti», più che di acquisizione di un riconoscimento giuridico-politico degli stessi, che conosce avanzamenti e regressioni. L’idea che legalità e giustizia non sempre coincidano ha alimentato l’affermazione di questa cultura diffusa dei diritti, che in alcuni alcuni paesi si limita ai diritti politici e di espressione, in altri coniuga questi con i diritti sociali, economici e ambientali. Perfino in Siria vi è stato questo salto di qualità, e nelle zone liberate dal regime di Damasco e non cadute sotto l’influenza dello Stato Islamico si moltiplicano le iniziative associative, di solidarietà e di riorganizzazione della comunità, anche con elezioni amministrative locali. E poi la Grecia, la Spagna, la Bosnia. Se prendiamo il partito Syriza, ad esempio, questo è il prodotto di un tessuto di numerosissime pratiche della solidarietà, della resistenza civile e della partecipazione dal basso che si è diffuso negli ultimi anni in Grecia, e che ha cercato di preservare o allargare spazi di diritto sempre più compressi dagli imperativi dell’austerità finanziaria e della governance verticale.



Nel suo libro si occupa anche del tema delle migrazioni: ci può anticipare la sua opinione ?



Sono per l’integrazione mediterranea, e dunque per una graduale abolizione degli ostacoli politico-amministrativi alla mobilità delle persone nella regione. Oggi, l’Europa ha bisogno degli immigrati per difendere l’idea originale di integrazione per un futuro di libertà e solidarietà condiviso. Chiudendo le sue frontiere e confondendo mezzi con fini (si vogliono distruggere i barconi senza voler legalizzare i flussi migratori), l’Europa uccide il sogno stesso che ha portato le sue nazioni a superare le divisioni e ad abbattere le frontiere. Abbiamo bisogno degli immigrati per dimostrare che il sogno europeo è capace di vincere paure ed egoismi, che siamo tutti pronti ad un patto di solidarietà come quello sottoscritto, dopo la caduta della Repubblica democratica tedesca, da un popolo tedesco che era stato diviso dal Dopoguerra. E l’Italia, questo patto di solidarietà, deve proporlo, esigerlo e costruirlo, se vuole dimostrare di conoscere la sua storia, fatta di migranti e viaggiatori, e di ambire a guidare una ritrovata centralità politica, economica e culturale mediterranea, da cui il nostro Paese non potrà che trarre motivi di riscatto dalla crisi attuale. È questa la vera risposta da dare all’instabilità libica, alla mafia dei barconi, alla crisi economica e alla ricerca di una vita migliore da parte di siriani, nigeriani o subsahariani. Come gli italiani cercarono fortuna in altri continenti partendo alla ricerca di un lavoro, così dobbiamo noi non solo offrire corridoi sicuri per chi fugge dal proprio paese per ragioni politiche, ma anche opportunità di sperimentarsi nel mondo del lavoro e dell’impresa.



Al centro del dibattito si pone, per motivi che conosciamo, la Libia: qual è la situazione, oggi, nel Paese e quali sono le ripercussioni per l'Europa?



Le informazioni che ho sulla situazione locale sono spezzettate, l’ultima volta che sono stato fisicamente in Libia è stato nel dicembre del 2012, ma gli amici attivisti di Bengasi o Tripoli chiedono unità e riconciliazione al di là degli interessi politici delle parti. Sebbene il parlamento di Tobruk sia quello legittimamente eletto alle elezioni del 25 giugno 2014, e che la diatriba giuridica seguente attorno alla legittimità delle elezioni è stata alimentata dalla parte perdente, i partiti di ispirazione religiosa, non credo che riconoscere e sostenere unilateralmente a livello internazionale una parte «laica» (l’autorità di Tobruk) aiuti alla riconciliazione. D’altronde, alle elezioni del giugno 2014 votarono solo il 18% degli aventi diritto, dato che denotava un generale disgusto per l’incapacità delle forze politiche di soddisfare le aspirazioni della rivoluzione. Il ruolo di mediazione giocato attualmente dalle Nazioni unite è essenziale. Ho l’impressione un certo appoggio incondizionato all’autorità di Tobruk risponda a vecchie logiche, le stesse che hanno significato in passato cooperazione rafforzata con i dittatori arabi per proteggere l’Europa da profughi e terroristi. Islam politico non significa necessariamente Stato islamico o al-Qāʿeda (il Consiglio nazionale che ha sede a Tripoli, che include i Fratelli musulmani e non riconosce l’autorità di Tobruk, combatte contro le postazioni libiche dello Stato Islamico); dobbiamo saper distinguere e valorizzare il riavvicinamento tra parti politiche non legate al regime precedente, se vogliamo assicurare un futuro democratico al Paese e la stabilità regionale - che vuol dire anche controllo del traffico delle armi, rispetto dei diritti umani e naturalmente gestione razionale e condivisa dei flussi migratori. Non possiamo capire il fenomeno dei profughi senza analizzare la decomposizione degli Stati del pourtour mediterraneo a causa dei violenti regimi precedenti, che hanno lasciato in eredità società svuotate dei suoi corpi intermedi, l’erosione strisciante della classe media, una povertà spaventosa, lo sfacelo del sistema educativo e il fanatismo religioso.