venerdì 12 giugno 2015

Susan Abulawa torna a raccontare la Palestina, dalla parte delle donne




Arrivarono di nuovo nel marzo e, a più riprese, nell'aprile del 1948, e la loro collera crebbe per l'incredulità e l'indignazione di vedere che un piccolo paesino di contadini e apicoltori poteva fronteggiare la forza di fuoco delle ben addestrate Haganagh, con le loro armi automatiche e gli aerei da combattimento contrabbandati dalla Cecoslovacchia sotto il naso dei britannici per prepararsi alla conquista. Durante l'ultimo attacco di aprile, cinquanta donne e bambini di Beit Daras furono trucidati in un giorno, e subito dopo gli uomini oridinarono alle loro famiglie di fuggire a Gaza mentre loro rimanevano a combattere”: questo è un brano tratto dal nuovo romanzo di Susan Abulawa, dopo il grande successo di Ogni mattina a Jenin. Il nuovo lavoro si intitola Nel blu tra il cielo e il mare (edito da Feltrinelli) e l'autrice traccia la storia della Palestina dal '48, anno della Nakba, al 1967 fino ad arrivare ai giorni nostri, attraverso le vicende della famiglia Baraka. In realtà, come sempre accade nella buona letteratura, l'individuale si fa universale e le storie dei personaggi diventano mosaico e metafora di un intero popolo da decenni sottoposto a guerra, ingiustizia storica, realtà economica disastrosa, situazione geopolitica svantaggiata, soprusi di vario genere.

In particolare il romanzo dà voce alle donne: Umm Mamduh, la matriarca considerata folle perchè in grado di comunicare con i jiin (entità che collegano il mondo terreno con il mondo degli spiriti), la giovane e bella Nazmieh, assetata di vita e di libertà, la piccola e sensibile Mariam e poi Nur. Nur è la nipote di Nazmieh: dopo aver trascorso molti anni negli Stati Uniti, passando da una famiglia affidataria all'altra, da grande decide di fare ritorno nella sua terra d'origine, a Gaza. Un percorso al contrario, un nostos che anche noi lettori facciamo insieme a Nur, per entrare nella polifonia di voci, parole, ricordi, avvenimenti che hanno segnato tutti: giovani, vecchi, uomini, donne e bambini. Sì perchè la voce narrante è quella di un bambino di dieci anni, Khaled, che sta per entrare nel blu, in quel colore che qui rappresenta la morte perchè lui è affetto dalla sindrome “locked in” che non gli permette di comunicare con l'esterno. Ma restano i suoi pensieri. “Loro tre erano le donne della mia vita, il canto della mia anima. Chi in un modo chi in un altro, avevano tutte perso gli uomini che amavano, tranne me. Io rimasi più a lungo che potei”, queste le parole di apertura del testo che ci introducono nel racconto corale, un omaggio evidente al femminino e al materno, a quella capacità di accogliere e di prendersi cura degli altri, di tutti, incondizionatamente, a quella forza che riconsegna alla vita. Ma non vengono trascurati gli uomini, nella narrazione della Abulawa: vengono descritti con il loro coraggio e la loro fierezza, nonostante le umiliazioni, il terrore, la devastazione. E, infine, quei bambini, che se non perdono la vita, passano attraverso i tunnel a prendere la merce di contrabbando, trascorrono le giornate a costruire aquiloni, attendono...nella speranza di un futuro migliore, perchè la speranza “non è un soggetto, non è una teoria, è una dote”.



Ricordiamo che Susan Abulawa ha preso parte alla campagna of Boycotts, divestment and sanctions (BDS). In una intervista ha dichiarato: “Il boicottaggio economico e culturale è un metodo collaudato di resistenza che permette alle persone di coscienza in tutto il mondo di impegnarsi in una lotta morale contro le profonde ingiustizie che i leader mondiali non riescono a correggere. Si tratta di uno spazio vitale in cui si formano e si rafforzano forme di mutua solidarietà e in cui si forgia una formidabile potenza dei cittadini. La Palestina non è l'unica crisi del mondo, né la peggiore. Ma è il fulcro della cultura e dell'egemonia imperialista, ed è l'unico caso in cui nativi terrorizzati e brutalizzati vengono rappresentati come terroristi sulla scena internazionale. Per questo, come ha detto Edward Said, la Palestina è una delle grandi cause morali del nostro tempo”.