giovedì 3 settembre 2015

Riflessioni su possibili strumenti di ingresso protetto di richiedenti protezione internazionale sul territorio europeo




a cura del Gruppo di studio Progetto Lampedusa*



A mani nude, senza altra scelta. Passo in rassegna i volti a uno a uno, la piazza universale
delle donne e degli uomini che porto con me verso un altro mondo.
Fratelli miei, non ci hanno vinti. Siamo ancora liberi di solcare il mare”
Luther Blisset, “Q”



L’Unione europea – pur a fronte di grandi dichiarazioni di principi, sacralizzate nella Carta di Nizza e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo – ha fino ad oggi affrontato la questione dell’ingresso sul territorio europeo di migranti e richiedenti protezione internazionale prevalentemente alla stregua di un problema di sicurezza, che si è tradotto in investimenti volti a rafforzare e a controllare la frontiera esterna dell’UE.
Intanto, dal 2000 al settembre 2014
[1] le persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa sono state almeno 22.000; nel solo 2014, sono 3.072 i migranti morti nel Mediterraneo, oltre il doppio rispetto al medesimo periodo del 2013.
Le persone che cercano di attraversare irregolarmente le frontiere europee sono nella maggioranza dei casi uomini, donne e bambini costretti ad abbandonare i loro Paesi in guerra o sottoposti a regimi brutali: provengono dal Corno d’Africa, dall’Africa Centrale, dall’Iraq e dall’Afghanistan, da quel che resta delle Primavere Arabe e, oggi, dalla Siria, Paese ove la guerra ha causato la morte di oltre 190.000 persone.
Sono, nella grande maggioranza dei casi, persone che ai sensi della Convenzione di Ginevra e della Direttiva Qualifiche
[2] avrebbero pieno diritto alla protezione internazionale.
La domanda è
naive, ma viene da sé: perché persone che il nostro sistema riconosce quali soggetti da proteggere rischiano ogni giorno la propria vita per varcare le nostre frontiere?
La risposta si trova nella stessa normativa europea
[3]: i richiedenti asilo possono infatti presentare la loro domanda di protezione solo allorquando si trovino già sul territorio dell’Unione europea.
Il viaggio verso l’Europa è dunque il presupposto necessario per accedere all’asilo, e rimane, paradossalmente, affare dei migranti: e, come già osservato nel 1999, dal Consiglio europeo per i rifugiati e gli esiliati (ECRE) durante il Consiglio di Tampere «il miglior sistema europeo di riconoscimento del diritto d’asilo sarebbe comunque ben poca cosa, se alle persone in cerca di rifugio non è data alcuna possibilità di beneficiarne fino a quando non abbiano raggiunto la stessa Europa».
Per fermare, o quantomeno ridurre, la tragedia che avviene nel Mediterraneo da decenni e il traffico di migranti su cui prosperano le organizzazioni criminali sarebbe pertanto necessario e doveroso, come richiesto da tempo da molte ONG, superare l’attuale quadro normativo e riuscire ad approntare soluzioni strutturali – e non già emergenziali – volte a realizzare un meccanismo di tutela per i richiedenti asilo precedente, e non già successivo, agli oramai noti “viaggi della speranza”, che permetta agli stessi un accesso effettivo e sicuro alla protezione internazionale di cui sono riconosciuti titolari.
[4]Gli strumenti giuridici a disposizione delle istituzioni per contrastare tale paradosso esistono, e questo lavoro si propone di analizzarne brevemente le caratteristiche.
Prima di intraprendere la predetta analisi, è opportuno segnalare che, oltre alle gravi carenze relative alla possibilità di ingresso sul territorio europeo, l’azione dell’Unione e degli Stati membri – salvo alcuni casi virtuosi – si è dimostrata sinora insufficiente anche per ciò che riguarda il trattamento che viene riservato a coloro che riescono ad arrivare nel territorio europeo: gli standard di accoglienza non sono adeguati, il c.d. sistema Dublino ha creato una situazione di disuguaglianza sostanziale cui l’Unione non pare interessata a porre rimedio, i migranti sono spesso sottoposti ad una detenzione
de facto e non esiste a livello normativo una strategia unica che garantisca, sostanzialmente, il rispetto e il riconoscimento della dignità di costoro, come singoli e nelle formazioni sociali.
Con l’auspicata introduzione di procedure di ingresso protetto, non si potrà pertanto prescindere anche da un ripensamento, o addirittura un superamento, del sistema Dublino.
Il recente Regolamento UE n. 604/2013 (c.d. Regolamento Dublino III) che ha sostituito, abrogandolo, il Regolamento 343/2003/CE, pur recependo, almeno in parte, le garanzie sancite dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo
[5], non ha modificato nella sostanza le procedure di determinazione dello Stato competente all’esame delle domande di asilo (i cosiddetti “criteri gerarchici”).
Ancora adesso, dunque, il sistema Dublino assegna – nella maggior parte dei casi – la responsabilità di esaminare la richiesta di protezione internazionale (e di farsi carico della successiva accoglienza) allo Stato membro di primo arrivo del migrante, così determinando una forte pressione sui Paesi membri che si trovano ai confini dell’Unione europea.
In molti casi questi Paesi non hanno saputo (o voluto) apprestare condizioni di asilo e accoglienza adeguate, con il risultato che – si veda l’esempio della Grecia, della Bulgaria, ora anche dell’Italia – sempre più numerose sono state le pronunce giurisprudenziali che hanno annoverato questi paesi tra quelli “non sicuri”.
A ciò si aggiunga che, più in generale, gli Stati membri adempiono agli obblighi internazionali relativi alla protezione dei rifugiati con modalità che spesso determinano significative differenze dei sistemi di accoglienza e delle possibilità di integrazione dei migranti.
Questa situazione ha di fatto creato, all’interno dell’Unione, un fenomeno di intensa mobilità – nuovamente irregolare – dei richiedenti asilo, i quali, nel tentativo di presentare domanda di protezione nel Paese in cui effettivamente vorrebbero stabilirsi, si trovano costretti ad attraversare illegalmente i territori degli Stati membri.
Tentando di sfuggire ai controlli di frontiera – molto spesso con l’ausilio di trafficanti, pagati a caro prezzo – gli stessi cercano di evitare di essere identificati e quindi di dover radicare l’
iter per il riconoscimento della protezione in uno Stato membro in cui rischiano di veder violati i propri diritti fondamentali (si veda il caso della Grecia) o che non è in grado di garantire loro le tutele minime previste dalle normative europee, o ancora in cui non sarebbero in grado di trovare un lavoro che consenta loro una vita dignitosa.
In quest’ottica, da un lato, si sarebbero auspicabili procedure di ingresso che consentissero di attribuire priorità, all’interno dei criteri gerarchici, alla volontà del richiedente, con elementi correttivi fondati su legami reali fra il richiedente e lo Stato membro; dall’altro, si dovrebbe raggiungere una completa armonizzazione delle normative nazionali in materia di asilo con meccanismi efficienti volti a garantire solidarietà ed equità tra gli Stati, secondo quanto previsto dall’art. 80 TFUE, insieme ad un piano di azione non più lasciato alla discrezionalità degli Stati, ma fondato sull’obbligatorietà di un intervento europeo, in modo tale da garantire su tutto il territorio dell’Unione i medesimi standard di accoglienza.



Gli strumenti a disposizione dell’Unione Europea e dell’Italia

L’Unione europea e i singoli Stati membri hanno già avuto modo di sperimentare – al di fuori di un quadro normativo organico – modalità di riconoscimento della protezione internazionale che garantiscono in maniera enormemente più efficace la sicurezza fisica dei richiedenti asilo (nonché l’arrivo “ordinato” degli stessi, con conseguente possibilità di approntare più efficaci sistemi di accoglienza).
Si tratta in alcuni casi di strumenti utilizzati sinora soltanto per particolari situazioni di emergenza, in altri casi di modalità di riconoscimento dell’asilo che erano un tempo adottate da singoli Stati membri e che poi – proprio a causa delle politiche europee, per un beffardo fenomeno di eterogenesi dei fini – sono state dismesse.
Tali strumenti sono:
i) le Procedure di Ingresso Protetto (PEP) ii) la prassi dei reinsediamenti, in inglese resettlement, promossa dall’UNHCR, iii ) le operazioni di evacuazione umanitaria, anche dette “corridoi umanitari”; iv) un più pieno utilizzo delle possibilità previste dal sistema dei visti Schengen.
Nei prossimi paragrafi si approfondirà brevemente ciascuno di tali strumenti.



Le procedure di ingresso protetto (PEP)

L’espressione procedure di ingresso protetto (PEP) sta complessivamente ad indicare tutte quelle procedure che permettono allo straniero di richiedere la protezione internazionale ad un potenziale Stato ospite fuori dal territorio di quello Stato e, in caso di riscontro positivo a tale richiesta, di accedervi in tutta sicurezza e legalità.
Le procedure di ingresso protetto hanno dunque l’obiettivo di evitare gli ingressi illegali – e i viaggi nelle mani dei trafficanti ad essi connessi – dei richiedenti asilo nel territorio che dovrebbe, o potrebbe, riconoscere agli stessi la protezione internazionale. Tali procedure permettono altresì agli Stati ospiti di decidere preventivamente e ordinatamente, sulla base delle proprie capacità e possibilità di accoglienza, il numero e il tempo degli arrivi dei richiedenti asilo sul proprio territorio.
I luoghi naturalmente deputati – in assenza di specifici uffici – a raccogliere le richieste di ingresso e di protezione internazionale sono le ambasciate e i consolati presenti nello Stato di provenienza o di transito dei richiedenti asilo, che andrebbero all’uopo preparate e rafforzate; il loro regime giuridico ovvia al problema – posto da alcuni – secondo il quale il richiedente asilo non potrebbe procedere alla richiesta direttamente nel suo Paese, poiché la “fuga” dal pericolo che tale Paese rappresenta per il richiedente asilo è un elemento essenziale per il riconoscimento della protezione internazionale.
Generalmente, nei casi in cui tale sistema è applicato
[6], le procedure di ingresso protetto sono disciplinate da leggi ordinarie che stabiliscono il ruolo delle ambasciate, il loro rapporto con le commissioni centrali che decidono circa l’accoglibilità della richiesta di protezione internazionale, la possibilità per il richiedente di entrare nel Paese ospite solo una volta ottenuta la protezione internazionale ovvero (come previsto dalla maggioranza delle PEP) anche nel caso in cui la richiesta risulti prima facie accoglibile, con svolgimento delle successive pratiche direttamente nello Stato ospite e con relativo – seppur temporaneo – permesso di soggiorno.
Tale regolamentazione delle PEP si distingue dall’asilo diplomatico vero e proprio che, invece, è un atto meramente politico deciso dalle autorità di uno Stato volta per volta per singoli individui
[7], salvo il caso unico dell’Olanda, che concede l’asilo diplomatico temporaneo anche a gruppi di persone in caso di eccezionale emergenza.



Il resettlement

Con reinsediamento o resettlement si indica quella procedura tramite la quale viene consentito ai richiedenti asilo di trasferirsi da luoghi non sicuri – per esempio, da campi profughi – a Stati che abbiano deciso di accordare agli stessi la protezione internazionale e il conseguente permesso di soggiorno.
Le procedure di
resettlement sinora sono state sempre coordinate dall’UNHCR che stabilisce quali siano le persone che maggiormente necessitano di tale forma di tutela e si coordina con gli Stati che decidono di partecipare a tale programma.
Una importante procedura di
resettlement è stata recentemente attivata dall’UNHCR a favore dei profughi siriani: come si legge in un comunicato dell’Alto Commissariato pubblicato in data 27 giugno 2014, dal 2013 ad oggi 33.837 persone sono state trasferite dalla Siria ed accolte in numerosi Paesi del mondo; con specifico riferimento ai rifugiati siriani, il Paese europeo più virtuoso è stato la Germania, che ha accolto oltre 20.000 persone. L’Italia rimane invece a zero.
Tale strumento sarebbe senza dubbio una soluzione durevole al problema in esame ma al momento è ancora poco utilizzato. Nel 2011 – ultimi dati globali diramati dall’UNHCR – le persone che hanno beneficato della procedura di reinsediamento sono state 61.231 – ovvero soltanto l’1% di coloro che, sempre stando alle stime dell’Alto Commissariato, avrebbero diritto alla protezione internazionale – di cui 42.215 accolte dai soli Stati Uniti. In Europa, lo Stato più virtuoso nel 2011 è stato la Svezia (1.900 reinsediamenti), seguito da Danimarca, Finlandia, Olanda, Regno Unito; l’Italia in quell’anno ha reinsediato sul proprio territorio soltanto 151 persone. L’Unione europea si è dotata di un Programma comune di reinsediamento soltanto nel 2012.



I corridoi umanitari

Il termine “corridoio umanitario” convenzionalmente indica determinate zone che, in caso di conflitto, vengono demilitarizzate e protette da contingenti – normalmente delle Nazioni Unite – per permettere il passaggio di aiuti umanitari a popolazioni che si trovano in situazione di particolare emergenza. Il più vasto uso di corridoi umanitari è stato fatto in passato durante la guerra nei Balcani. I corridoi umanitari possono essere stabiliti anche con il fine di permettere l’evacuazione dei profughi da una zona di guerra o dai campi in cui costoro siano stati costretti a sostare e il loro trasferimento in Stati disposti ad accoglierli, nei quali gli stessi potranno avviare le pratiche per il riconoscimento della protezione internazionale.
Lo strumento è stato normalmente utilizzato sotto l’egida delle Nazioni Unite e ciò a causa della natura eminentemente negoziale dello stesso, che viene attivato in situazioni di eccezionale emergenza e che deve essere avallato – o imposto con la forza – anche dagli Stati o dai gruppi che quell’emergenza l’hanno creata. In linea teorica, in ogni caso, nulla impedisce che l’Unione europea o un singolo Stato possano attivare operazioni del genere senza il necessario – e difficoltoso – intervento dell’ONU, a patto però che l’UE o lo Stato in questione dispongano di un potere negoziale sufficiente per ottenere la creazione di un’area protetta in cui svolgere le operazioni di salvataggio dei profughi.
[8]I corridoi umanitari attivati sinora per l’evacuazione dei profughi hanno avuto alcune caratteristiche peculiari: la durata temporale limitata e precisa, il riferimento ad un particolare gruppo di persone in situazione di eccezionale emergenza (in rilievo vengono dunque le necessità di protezione del gruppo e non dei singoli), la preventiva fissazione di quote di rifugiati da ospitare da parte degli Stati disponibili all’accoglienza degli stessi.
Tali caratteristiche renderebbero lo strumento in questione certamente adatto ad alleviare temporaneamente la pressione ai confini dell’Europa e a permettere la sicurezza di molti migranti che oggi si trovano in procinto di intraprendere il viaggio via mare o via terra: pare però d’altro canto evidente che le operazioni di evacuazione umanitaria, per le citate caratteristiche, non potrebbero essere uno strumento di risoluzione stabile della questione oggetto di esame, che non è legata ad un’emergenza temporanea ma ha assunto negli anni la forma di un fenomeno strutturale del nostro tempo.
Peraltro, la natura negoziale ed emergenziale di tale strumento, e dunque il fatto che il corridoio umanitario si attivi senza precise e prestabilite obbligazioni giuridiche in capo ai soggetti che lo realizzano, lascia alcuni dubbi circa il fatto che con tale modalità si possano garantire al meglio i diritti dei soggetti titolari di protezione internazionale.
Senza dubbio avere operazioni di evacuazione coordinate dalla Unione europea e con norme comuni a tutti gli Stati partecipanti sarebbe un passo in avanti verso l’affidabilità di tale sistema.
Nessuna operazione di evacuazione umanitaria è stata fino questo momento coordinata dall’Unione europea: si segnala però una recente comunicazione della Commissione, che invita le istituzioni europee a lavorare al fine di predisporre dei canali umanitari onde evitare quanto sta accadendo nel Mediterraneo (Com//2013/869); a tale Comunicazione non è però ad oggi seguito alcunché.



Il visto umanitario

Le procedure brevemente illustrate nei paragrafi precedenti rappresentano senza dubbio strumenti di straordinaria rilevanza per offrire una soluzione duratura ed efficace al problema oggetto di esame, ma, al momento, pare del tutto assente la volontà politica di procedere in tale senso.
Un’alternativa di maggiore fattibilità sia giuridica che pratica è offerta dalla stessa normativa europea: si tratta del visto c.d. umanitario che, se utilizzato, potrebbe limitare grandemente gli ingressi illegali – e i viaggi della speranza – in Europa.
La relativa disciplina è contenuta in due regolamenti europei, il Codice delle frontiere
[9] ed il Codice dei visti[10] Schengen. Il primo, all’art. 5, par. 4, lett. c), prevede la possibilità per gli Stati membri di consentire l’ingresso per motivi umanitari anche a cittadini di Paesi terzi che non posseggano i requisiti per l’ingresso alle frontiere esterne previsti dal par. 1 dello stesso articolo. La rappresentanza diplomatica non dovrebbe farsi carico, così, della valutazione (anche sommaria) della domanda di protezione, ma si limiterebbe a rilasciare un visto per motivi umanitari, di durata limitata. La fattispecie è disciplinata all’art. 25 del Codice visti, ove è espressamente prevista la possibilità per gli Stati Membri, in presenza di ragioni di carattere umanitario, di rilasciare un “Visto con validità territoriale limitata” in deroga alle disposizioni dell’art. 5 Reg. 2009/810/CE, il quale consentirebbe al richiedente di viaggiare in sicurezza verso il Paese cui intende chiedere protezione e di farvi ingresso allo scopo, appunto, di presentare la relativa richiesta.
La previsione di tale visto consentirebbe di anticipare le tutele per i richiedenti la protezione internazionale nei Paesi di origine e nei Paesi terzi, secondo i criteri individuati nelle direttive europee che regolano la materia. In una prospettiva più ampia la prerogativa andrebbe estesa ai c.d. profughi ambientali, ai richiedenti protezione umanitaria e alle vittime di tratta. Questi soggetti potrebbero affrontare il viaggio verso l’Europa in sicurezza ed evitare di mettere la propria vita e tutte le proprie speranze nelle mani dei trafficanti.
Quanto già sperimentato in alcuni Paesi – nell’ambito di legislazioni nazionali che prevedevano Procedure di Ingresso Protetto – consente di mettere in luce quali potrebbero essere le criticità più evidenti dell’utilizzo dello strumento in esame ma offre anche alcuni spunti sulle possibili soluzioni.
La presentazione della richiesta di tale visto nei Paesi di origine potrebbe essere resa impossibile agli aventi diritto da parte delle autorità statali responsabili delle persecuzioni o da parte di soggetti terzi che lo Stato non riesce a controllare e dai quali non riesce a difendere i propri cittadini.
Colui che fugge dal proprio Paese per il timore fondato di essere perseguitato dovrebbe perciò più verosimilmente presentare la relativa richiesta in uno Stato terzo, potenzialmente in uno Stato limitrofo.
In uno stadio iniziale dunque, gli uffici consolari addetti al rilascio di tali visti dovrebbero essere potenziati negli Stati limitrofi ai territori di provenienza dei richiedenti protezione, dove la situazione potrebbe divenire ingestibile se, una volta diffusa la notizia di tale possibilità, l’enorme afflusso di persone congestionasse l’attività delle ambasciate esponendo lo stesso personale interno al pericolo di ripercussioni.
Questa criticità potrebbe essere limitata prevedendo più sedi consolari addette al rilascio del visto e, all’interno di ogni sede, maggiore personale. Le procedure dovrebbero essere snelle, limitandosi ad un esame sommario delle situazioni e rimandando agli organi interni allo Stato di destinazione una valutazione più puntuale sulla singola condizione.
Una prospettiva di tal tipo ha speranza di funzionare solo in un panorama europeo e se gli uffici consolari di tutti o di una buona parte degli Stati membri impostassero il lavoro (almeno) in questi termini.
D’altra parte, in attesa che sia modificata la normativa europea rimane, in capo ai singoli Stati, la possibilità di adottare soluzioni che possano intanto rendere più sicuro e legale il viaggio verso l’Europa.
Infine, è necessario menzionare un ulteriore strumento a disposizione degli Stati membri dell’Unione europea, ovvero la Direttiva sulla Protezione Temporanea (Direttiva 2001/55/CE del Consiglio). Tale normativa prevede la possibilità per gli Stati membri di concedere temporaneamente l’ingresso ed il soggiorno sul proprio territorio a gruppi di persone provenienti da aree in estrema emergenza. La normativa italiana ha recepito parzialmente le indicazioni della Direttiva con l’art. 20 del D. Lgs. 286/98, che prevede il riconoscimento di una “protezione temporanea” ed il rilascio di un permesso di soggiorno provvisorio a persone giunte in numero elevato ed in situazione di emergenza, permesso rinnovabile fino a che l’emergenza perdura e non ostativo alla presentazione di una domanda di asilo da parte dei singoli. Da rilevare che la norma in questione è assai generale e la sua applicazione sinora è stata subordinata all’emanazione, di volta in volta, di circolari ministeriali per ogni caso specifico. Questo è successo, per citare il caso più recente, in occasione dell’arrivo di un gran numero di cittadini tunisini all’indomani delle “Primavere arabe” nel 2011.



Lo stato delle cose nell’Unione europea e in Italia

Nonostante la presenza di strumenti giuridici già potenzialmente applicabili, l’Unione europea non ha ancora disposto procedure di ingresso protetto, che potrebbero rappresentare, insieme ad un migliore utilizzo del Codice Schengen, la più efficace soluzione al dramma degli arrivi illegali.
Molteplici sono state le Comunicazioni della Commissione e le Risoluzioni del Parlamento
[11], volte a richiedere l’applicazione, in particolare, delle PEP e del resettlement ma, a livello normativo, i risultati sono stati minimi.
Un primo passo in avanti è costituito, senza dubbio, dal Programma Comune di Reinsediamento dell’Unione europea, approvato il 29 marzo 2012 dal Parlamento dopo tre anni di lavori della Commissione e del Consiglio. Tale programma permetterà la gestione europea delle procedure di
resettlement e consentirà inoltre agli Stati membri coinvolti di ottenere il sostegno fornito dal Fondo Europeo per i rifugiati, ma ancora molto vi è da fare: il programma infatti è stato sinora applicato solo in via sperimentale e senza alcun obbligo per gli Stati Membri di parteciparvi.
Il c.d. Programma di Stoccolma ha inoltre fornito spunti per l’implementazione o la modifica delle normative oggi vigenti in tema di immigrazione, con il fine di garantire una migliore tutela dei diritti fondamentali.
Tali spunti sono stati in parte recepiti dalle nuove Direttive Qualifiche
[12] e Procedure[13] nonché dal nuovo Regolamento Frontex[14].
Nonostante questo, le normative dei singoli Paesi sono assai lontane dall’armonizzazione indicata nel programma: nel territorio dell’Unione non esiste ancora, infatti, uno status uniforme di beneficiario della protezione e neppure un mutuo riconoscimento dei visti per soggiorno umanitario accordati nei singoli Stati e il divario tra obiettivi dichiarati e politiche per la loro concreta attuazione è divenuto sempre più ampio.
Quanto all’Italia – nonostante l’esistenza di strumenti giuridici potenzialmente efficaci, rispetto alle risposte strutturali volte a prevenire gli arrivi illegali, e non già a rimediarvi – la situazione è quantomai arretrata.
Il nostro Paese non è infatti dotato di alcuna normativa che consenta di anticipare, all’estero, le tutele per chi richiede una protezione: l’Italia non ha mai avuto una PEP, né ha mai applicato il combinato disposto degli artt. 5 e 25 del Codice Schengen.
Anche la partecipazione dell’Italia a programmi di
resettlement è stata assai limitata: come poc’anzi esposto, infatti, nel 2011 soltanto 151 persone sono state reinsediate sul territorio italiano e l’Italia non ha ad oggi aderito al programma di resettlement dei profughi siriani promosso dall’UNHCR.
L’ingresso sicuro dei richiedenti asilo in Italia è dunque sinora passato soltanto attraverso operazioni emergenziali di evacuazione umanitaria.
In particolare, l’Italia ha realizzato – tramite le proprie forze armate – operazioni di evacuazione umanitaria nel 1990 a favore degli albanesi, nel 1999 a favore dei kosovari (l’aviazione nei trasferì 5.000 dalla Macedonia all’Italia) e nel 2011 a favore di 108 eritrei e etiopi che si trovavano in Libia: tale ultima operazione umanitaria è di particolare interesse perché avvenuta sulla base di accordi negoziati direttamente dall’Italia e dalla Libia, su pressione del vescovo di Tripoli, e senza l’intermediazione delle Nazioni Unite.
Quanto ai provvedimenti urgenti, nel 1990 fu riconosciuta senza alcun passaggio intermedio la protezione internazionale ad alcune centinaia di albanesi che avevano occupato l’ambasciata italiana a Tirana; nel 1992, poi, fu adottata una normativa
ad hoc (L. 390/1992) – peraltro assai poco utilizzata – che prevedeva una procedura specifica per l’accesso alla protezione internazionale da parte dei profughi provenienti dai Balcani (ma, in ogni caso, non facilitava in alcun modo l’ingresso di costoro nel territorio nazionale).
In tal senso, l’adozione, in Italia di un visto a validità territoriale limitata per fini umanitari, come disciplinato dal Codice Visti UE e dal Codice Frontiere Schengen, potrebbe intanto avviare una prassi positiva e sicura e non trascurabile dagli altri Stati membri e dalle istituzioni europee.

 

 

* L’articolo è tratto da alcuni dei pareri redatti nell’ambito del Progetto Lampedusa. L’attività di collazione e sintesi è a cura di Caterina Bove, Francesca Cucchi, Chiara Pigato, Alice Ravinale. L’elenco dei partecipanti al Progetto è disponibile sul sito della Scuola Superiore dell’Avvocatura (www.scuolasuperioreavvocatura.it/progetto-lampedusa).

[1]  Cfr. Rapporto OIM Fatal Journeys: Tracking Lives lost during Migration, presentato a Ginevra il 29 settembre 2014.

[2]  Direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (rifusione).

[3]  Art. 3 Direttiva 2005/85/CE del Consiglio, modificata recentemente con Direttiva 2013/32/UE.

[4] Cfr., per tutti,  quanto dichiarato dal Direttore del C.I.R.: «I flussi di chi è costretto a fuggire dalle persecuzioni non si possono fermare, per questo è indispensabile gestirli. La possibilità di richiedere asilo in Italia e nell’Unione Europea a oggi dipende dalla presenza fisica della persona nel territorio di uno Stato Membro. Ma le leggi europee costringono i richiedenti asilo a giungere in Europa in modo illegale, rischiando la vita» (C. Hein intervistato da L. Eduati per l’Huffington Post, 3 ottobre 2013).

[5] Corte Europea dei diritti dell’uomo, sent. M.S.S. c. Belgio e Grecia (21/01/11, ric. 30696/09); Corte di giustizia UE, N.S. e altri (21/12/11, procedimenti riuniti C-411/10 e C-493/10).

[6] In Europa disponevano di Procedure di Ingresso Protetto l’Austria, l’Olanda, la Danimarca e la Svizzera.

[7] Si vedano i recenti casi di Edward Snowden e Julian Assange.

[8] Sinora, la più grande operazione di evacuazione umanitaria è stata quella con cui, nel 1999, circa 90.000 profughi kosovari sono stati trasferiti dalla Macedonia a Stati disponibili all’accoglienza, che hanno altresì contribuito fisicamente allo spostamento dei profughi stessi. L’operazione fu organizzata dall’UNHCR con il supporto di contingenti militari degli stessi Stati che accolsero i profughi.

[9] Regolamento (CE) N. 562/2006 del Parlamento e del Consiglio, che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone.

[10] Regolamento (CE) N. 810/2009 del Parlamento e del Consiglio, che istituisce un codice comunitario dei visti.

[11]  Si vedano in particolare Com/2000/0755, 2008/2305(INI), 2013/2827(RSP), Com/2013/869.

[12]  Direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (rifusione).

[13] Direttiva 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (rifusione).

[14] Regolamento 656/2014/UE recante norme per la sorveglianza delle frontiere marittime esterne nel contesto della cooperazione operativa coordinata dall’Agenzia Europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea, che ha sostituito il Regolamento 1168/2011/UE, che ha modificato il Regolamento 2007/2004/UE istitutivo dell’Agenzia Europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione Europea.