lunedì 13 gennaio 2014

La morte del "leone di Dio"




Si è spento, ad 86 anni, Ariel Sharon, in coma dal 2006 a causa di un'emorragia cerebrale e dopo una lunga esistenza come leader politico e militare. 


Ministro dell'Agricoltura, svolge un ruolo di primo piano nel programma di costruzione degli settlements a Gaza e in Cisgiordania; come Ministro della Difesa è stato l'artefice dell'invasione del Libano, nel 1982. Nel 2000, come capo dell'opposizione al Parlamento, compie un gesto dimostrativo: entra, accompagnato da una scorta armata, nella spianata delle moschee a Gerusalemme per rendere chiaro che anche quella parte della città deve sottostare alla sovranità israeliana. L'episodio dà inizio alla Seconda Intifada. Nel 2004, però, decide per il ritiro dei soldati dalla striscia di Gaza – decisione con la quale vuole dimostrare, alla comunità internazionale, la buona volontà di Israele nel volere la pace – ma tale decisione viene vissuta come un tradimento da parte della destra religiosa. Un anno dopo lascia il partito Likud, nazionalista e liberale, per fondare il partito Kadima, centrista, a cui prende parte anche Shimon Peres, Nobel per la Pace.

Difficile riassumere in poche righe una vita intensa, complessa e controversa come quella dello statista israeliano il cui nome, Ariel, significa “il leone di Dio”. E proprio il suo nome rimane legato ad uno degli avvenimenti più tragici della Storia del '900: il massacro di Sabra e Shatila, i campi di rifugiati in cui persero la vita più di tremila arabi palestinesi. Il massacro, che durò dal 16 al 18 settembre 1982, fu perpetrato dalle milizie cristiane libanesi in un'area direttamente controllata dall'esercito israeliano e causò i terribili fatti di sangue, noti come la “guerra dei campi”, tra il 1985 e il 1987. Questi fatti si inseriscono nel contesto della guerra civile libanese: Israele, infatti, sostenne con le armi, la comunità cristiana dei maroniti e l'Esercito del Sud del Libano (cristiano-maronita) contro l'OLP e le forze armate cristiane.

Ma questa è una maniera astratta per parlare di guerra e di Storia, Per capire davvero quali siano le conseguenze di un conflitto, di qualsiasi conflitto, vi consigliamo di leggere un romanzo che si intitola: Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa edito da Feltrinelli.


Amal, la nipotina del patriarca della famiglia Abuleja, è la voce narrante di quattro generazioni di palestinesi costretti ad abbandonare la propria terra, dopo la nascita dello Stato di Israele. La deportazione, nel 1948, nel campo profughi di Jenin; i due fratelli che si trovano a combattere su fronti opposti; la maternità e i numerosi lutti. Amal, alter-ego dell'autrice, intreccia le storie individuali alla grande Storia di un Paese martoriato, con crudo realismo e vibrante poesia. Più di sessant'anni di storia, tra il 1941 e il 2002: gli anni del conflitto israelo-palestinese e delle devastazioni che si sono riversate su donne, uomini, bambini che hanno distrutto rapporti familiari e generazioni. Eppure qualcosa, almeno nella finzione letteraria, riesce a salvarsi.

La scrittrice è nata da una famiglia palestinese in fuga dopo la “Guerra dei sei giorni”, ha vissuto in un orfanotrofio a Gerusalemme per poi trasferirsi negli Stati Uniti e, con questo suo lavoro, non ha voluto attribuire colpe, ma ha voluto raccontare la verità, la verità di chi troppo spesso non viene ascoltato, in particolare dei profughi “sospesi” nei campi, ma che riescono ad andare avanti nonostante tutto e grazie all'amore.