mercoledì 4 marzo 2015

Trappola Gaza: la verità al centro dell'informazione





Trappola Gaza racconta l’operazione Margine di Protezione, condotta a luglio e agosto scorso dall’esercito israeliano nella Striscia in risposta al rapimento e all’omicidio di tre adolescenti israeliani in Cisgiordania. Il bilancio è di oltre 2100 vittime palestinesi; 66 soldati e 6 civili israeliani. Tra le vittime anche il reporter Simone Camilli e altri 15 giornalisti. In un contesto così complesso e difficile l’informazione si trasforma in un’arma a totale discapito della verità: parte da qui la riflessione di Gabriele Barbati nel suo ebook multimediale intitolato Trappola Gaza – Nel fuoco incrociato tra Israele e Palestina.



Abbiamo rivolto, per voi, alcune domande a Gabriele Barbati che ringraziamo per la sua disponibilità.






Sei stato testimone di quello che è successo nel giungo 2014: la guerra tra Hamas e Isralele che ha portato alla morte di più di 2000 persone. Puoi condividere, almeno in parte, la tua testimonianza sull'accaduto?



Ho vissuto tre anni tra Palestinesi e Israeliani e seguito due guerre a Gaza, eppure le tre settimane trascorse nella Striscia la scorsa estate sono state inaudite. I bombardamenti israeliani hanno raso al suolo intere urbane, in precedenza abitate da migliaia di persone. Avevo visto un simile grado di distruzione solo durante i terremoti terribili che ho raccontato da giornalista in Estremo Oriente. Già dal principio del conflitto, da Gerusalemme e poi da Gaza città, si capiva che la guerra del 2014 sarebbe diventata la più sanguinosa di sempre. Profughi a migliaia, ospedali al collasso, nessun posto dove rifugiarsi (l’embargo e il blocco navale di Israele e Egitto negano ogni possibilità alla maggior parte dei palestinesi di lasciare Gaza). I numeri di morti, feriti, invalidi di luglio e agosto testimoniano da soli cosa è stato e a sei mesi di distanza, in mancanza di accordi sulla ricostruzione o sul futuro politico di Gaza - tra Israele, Hamas e l’Egitto che fa da mediatore - la situazione è purtroppo peggiorata.




Quali sono, a tuo parere, gli interrogativi che l'Occidente e i Paesi dell'area si devono porre a proposito della situazione tra Israele e Palestina, ma anche in merito alla situazione politica interna alla Palestina stessa?



Dal lato israeliano, l’interrogativo rimane quello che il presidente americano Barack Obama pose durante la visita a Gerusalemme nel 2013: Israele, che si identifica come stato democratico e ebraico, potrà rimanere tale nel lungo periodo senza risolvere la questione palestinese? La risposta finora è stata di chiusura totale: maggiori controlli e maggiore violenza. L’intervento militare (battezzato Operazione Margine di Protezione in inglese ma in ebraico, significativamente, Scogliera Salda) ha superato ogni livello visto in precedenza, quanto a portata dei bombardamenti e scarsa considerazione degli obiettivi, che hanno incluso ambulanze, ospedali e persino scuole delle Nazioni Unite dove si raccoglievano i profughi. Con l’innalzamento dello scontro, motivato anche da una maggiore capacità di Hamas di combattere una guerriglia urbana, sono morti più civili a Gaza, più soldati israeliani (in maggioranza ventenni di leva) e la paura dentro Israele è esplosa. Quali assurdità raggiungerà la prossima guerra? E’ possibile fare peggio dell’ultimo conflitto? O è il caso di fare dei passi indietro, a cominciare dalla rimozione dell’embargo, che di fatto ha peggiorato la situazione di Gaza senza portare maggiore sicurezza?



Gli Stati uniti e l’Unione Europea dovrebbero trovare essi stessi una risposta a questa domanda, soprattutto quando decidono i primi di sostenere il governo di Israele e la seconda soltanto di ammonirlo con dichiarazioni di circostanza.



Le domande esistenziali non risparmiano naturalmente i palestinesi: non è arrivato il tempo di capire che la disperazione, per quanto comprensibile, se tramutata in violenza e resistenza armata da parte di Hamas e Jihad Islamica, non porta da nessuna parte? Quante persone in più sono morte a causa delle ritorsioni ai razzi lanciati dalla Striscia? Quelle che Hamas chiama “vittorie” – tenere in scacco la popolazione e l’esercito di Israele con razzi e combattenti – hanno accresciuto benefici e benessere per la popolazione di Gaza? Molti a Gerusalemme dicono che sarebbe anche il caso di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese, il para-governo istituto dagli Accordi di Oslo e oggi guidato da Mahmoud Abbas, presidente eletto che scansa da diversi anni nuove elezioni, rinviandole. Quell’enorme macchina burocratica ingoia aiuti finanziari e agisce involontariamente da filtro alle colpe dell’occupazione Israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e indirettamente di Gaza, senza neanche riuscire fino in fondo a richiamare Israele alle proprie responsabilità nelle sedi internazionali.



Lo scorso 19 febbraio 2015 è stato richiesto il riconoscimento dello Stato di Palestina...



L’Italia si appresta a votare una mozione parlamentare per indicare al governo di riconoscere lo stato Palestinese. Lo hanno fatto altri parlamenti europei l’anno scorso, e quello dell’Unione Europea, per quanto esclusivamente in linea di principio e condizionando il riconoscimento alla riapertura di negoziati bilaterali tra Israeliani e Palestinesi. La pressione internazionale – dalle iniziative nazionali a quelle in ambito ONU – è probabilmente l’unica maniera di smuovere chi ha il coltello dalla parte del manico in questo conflitto e anche la maggiore responsabilità morale di una soluzione, ossia Israele. La serie di votazioni in Francia, Irlanda, Spagna dello scorso autunno andava in questa direzione, ma certo un voto in Italia così in ritardo suona solo come uno scarico di coscienza (al pari dei soldi spesi annualmente per progetti di cooperazione in Palestina di scarsa efficacia nel lungo periodo). Valuti l’Europa piuttosto di intaccare davvero l’invulnerabilità israeliana: la decisione di non includere più nei programmi e nei fondi europei soggetti ed entità residenti negli insediamenti è stata un passo importante. Si mantenga la coerenza anche nel resto dei rapporti bilaterali e diplomatici con Israele e con l’Autorità nazionale Palestinese, a cui andrebbero richiesti trasparenza e risultati.




Come hanno vissuto, quei giorni, i giornalisti stanziati a Gerusalemme?Quali sono le notizie che la stampa, italiana e occidentale, non fornisce ?



I corrispondenti di base a Gerusalemme, e i tanti giornalisti accorsi da tutto il mondo, hanno affrontato l’ennesimo rigurgito di violenza israelo-palestinese seguendo il vecchio canovaccio di questo conflitto ormai secolare. Molti sono rimasti a Gerusalemme, o si sono spostati al sud, raccontando il lato israeliano. Altri, qualche centinaio, sono entrati a Gaza per raccontare quanto accadeva nella Striscia, ognuno valutando a modo proprio e attentamente i pericoli di una guerra che stavolta non ci ha risparmiato. I bombardamenti sono stati quotidiani, cosi come gli attacchi da parte dei combattenti di Hamas attraverso i tunnel, convincendo alcuni a inviare le proprie corrispondenze dagli hotel, altri dalle strade di Gaza accettando i rischi, altri ancora dalle zone di confine con Israele dove si combatteva corpo a corpo e piovevano i missili. Di questo conflitto non siamo stati osservatori, come nel novembre del 2012, ma parte coinvolta e diversi di noi sono morti.
La mia sensazione del tutto personale è che quest’ultimo conflitto abbia estremizzato l’approccio ideologico con cui la stampa internazionale da tempo affronta il conflitto tra Israeliani e Palestinesi. A questo tema ho dedicato due capitoli del mio libro (Trappola Gaza. Nel fuoco incrociato tra Israele e Palestina http://inform-ant.com/it/ebook/trappola-gaza.-nel-fuoco-incrociato-tra-israele-e-palestina ) perché ne sono rimasto scioccato, umanamente e professionalmente. Molti colleghi hanno preferito raccontare esclusivamente la distruzione e il dramma umano della guerra, una prassi consolidata in diversi conflitti. Altri hanno provato col passare del tempo a indagare anche le responsabilità di questa guerra, cercando di documentare i possibili crimini commessi dall’esercito Israeliano e dall’ala militare di Hamas, le Brigate Qassam. Sono entrambe scelte eticamente accettabili, contrariamente a quelle fatte da molti altri. Quanti hanno messo una causa, un’ideologia, un’identità – o come si voglia chiamarla, sia pro-Israele sia pro-Palestina – davanti alla propria professionalità, trasformandosi in avvocati, difensori, o strilloni di una propaganda di parte. E’ successo alla maggior parte dei media israeliani e palestinesi, a buona parte di quelli americani, a un certo numero di quelli europei. Qualche collega lo ha fatto coscientemente, qualche altro cedendo alle pressioni costanti e continue di personalità e organizzazioni filo-Israeliane nel mondo o alle intimidazioni dentro Gaza di uomini della sicurezza di Hamas. Sta di fatto che al pubblico alla fine è arrivato il solito pasto precotto: quello preparato dalla comunicazione israeliana e quello offerto anche stavolta dal mondo filo-palestinese. La stessa narrativa di sempre, una coperta corta tirata da un lato o dall’altro, un carnaio in cui anche i pezzi di verità comparsi su Twitter o Facebook sono stati affogati da attivisti on line di segno opposto. Come sempre, la grande confusione sui media tradizionali e social – a causa del cattivo giornalismo o seminata di proposito dalle parti in causa – ha costretto tanti che nutrivano una curiosità genuina o un interesse “laico” a sapere delle vicende di Gaza e di Israele a brancolare in un’incolpevole ignoranza.