mercoledì 19 agosto 2015

La comunità sikh nell'agropontino e il lavoro di braccianti



L'associazione Inmigrazione ha denunciato, recentemente, in un dossier le allucinanti condizioni di lavoro dei sikh che vivono nell'agropontino. L'Associazione per i Diritti Umani ha intervistato per voi Marco Omizzolo che ringrazia tantissimo per la disponibilità. 

 
Da quanto tempo gli indiani sikh vivono nell'agro pontino e com'è il loro processo di inserimento nella società italiana?   

 

La comunità punjabi si è costituita a partire dalla metà circa degli anni Ottanta. Prima poche decine persone, tutti giovani uomini impegnati nelle campagne pontine in attività di puro bracciantato agricolo e in parte nella zootecnia e nel florovivaismo, oggi è arrivata a contare circa 30mila persone. Una comunità organizzata, etnicamente connotata, prevalentemente ancora impegnata nel bracciantato agricolo e con forti legami con le altre comunità punjabi in Italia e nel resto del mondo. Purtroppo l'assenza di una adeguata comprensione delle dinamiche relazioni, del network transnazionale della comunità punjabi pontina, del sistema occupazionale pontino e gli scarsi servizi sociali dedicati a questo tema impediscono una relazione costruttiva tra la comunità punjabi e quella di accoglienza. La segregazione sociale, l'assenza di processi di crescita sociale ed emancipazione sono la conseguenza diretta dei processi di tratta internazionale, sfruttamento occupazionale, caporalato e violazione dei diritti umani che caratterizzano le attività lavorative dei punjabi pontini.


Molti lavorano nel settore agricolo come braccianti, ma le condizioni negano alcuni diritti di base...


Con la coop. In Migrazione (www.inmigrazione.it) abbiamo denunciato con alcuni dossier assai documentati i sistemi di reclutamento e impiego dei braccianti indiani. Caporalato, clientelismo, rincorsa all'assunzione dei lavoratori più socialmente fragile perché più esposti al ricatto occupazionale determinano, come anche Medu (Medici per i Diritti Umani) e Amnesty International hanno messo in luce e denunciato, la violazione sistematica dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori. La violenza che spesso queste persone subiscono, e con loro le loro famiglie, è tale da costringerli alla resa, ad accondiscendere il ricatto e la prepotenza. Abbiamo registrato numerosi casi di lavoratori punjabi che non hanno percepito lo stipendio per vari mesi nonostante abbiano lavorato tutti i giorni, anche per 14 ore al giorno, sabato e domenica compresi, come anche violenze fisiche, aggressioni e rapine nei loro confronti e minacce. Alcuni lavoratori vengono pagati 3-4 euro l'ora per 12-14 ore di lavoro quotidiano. Il contratto provinciale prevede circa 9 euro lorde l'ora ma è un miraggio se non per pochi fortunati. Per non parlare degli infortuni sul lavoro, degli incidenti stradali che li vedono vittime certe, delle malattie derivanti dalla loro attività bracciantile e dai relativi ritmi e condizioni di lavoro. Siamo dinnanzi alla violazione sistematica, organizzata e rodata dei loro diritti umani a scopo di sfruttamento lavorativo. Un business redditizio che piega la schiena ai braccianti indiani e contribuisce a generare milioni di euro di cui si appropriano sfruttatori e mafiosi.                                     


 

Ci può confermare che alcuni ricorrono all'oppio (o altre droghe) per sostenere i ritmi di lavoro nei campi?


Con il dossier “Doparsi per lavorare come schiavi” è stato denunciato esattamente questo problema. L'assunzione, variamente tollerata e indotta da alcuni datori di lavoro (che per inciso spesso pretendono di farsi chiamare padrone dal lavoratore), di sostanze dopanti come oppio, metanfetamine e antispastici per reggere le fatiche fisiche e psicologiche derivanti dal sistema di sfruttamento pontino. Ciò vale in particolare per i lavoratori più anziani (per evidenti limiti fisici) e per coloro che hanno un'anzianità migratoria e lavorativa nel bracciantato piuttosto breve. Purtroppo il fenomeno rischia però di allargarsi anche ad altre ambiti e di diventare la scala sociale attraverso la quale generare business economici illegali ma anche importanti per uscire dal bracciantato e dallo sfruttamento. Per questo, insieme alla repressione del fenomeno, è importante prevedere servizi sociali e formativi adeguati, insieme alla ferma condanna e conseguente superamento dello sfruttamento lavorativo, sempre più organico al modello d'impresa agricola nazionale e non solo, e delle varie forme e sistemi di reclutamento internazionali. Abbiamo per esempio proposto, dopo essere stati auditi dalla Commissione parlamentare antimafia, di adeguare la legge italiana contro il caporalato, di escludere le imprese agricole condannate per reati gravi come la riduzione in schiavitù, dal sistema dei finanziamenti pubblici, soprattutto europei, e di introdurre infine ancora il reato di caporalato nel 416bis, ossia nel reato di associazione mafiosa. Il caso pontino e con esso i casi più noti di Rosarno, Castel Volturno, Ragusa, Asti consentono di ritenere questa una proposta sensata, fondata e urgente.


Nel dossier, denunciate che il traffico – di droga e di persone – è in mano a italiani...


Si tratta di una sorta di associazione a delinquere composta sia da italiani che da indiani, ognuno con un proprio ruolo e una sua informale ma chiara gerarchia. La criminalità è fondata ancora sull'appartenenza etnica o clanica ma è altresì capace di includere soggetti diversi, compresi gli stranieri, con lo scopo di rendere possibile il business, che in questo caso riguarda la tratta internazionale di esseri umani, che abbiamo definito grigio-nera, lo sfruttamento lavorativo e un corollario di altre speculazioni non meno importanti (il business dei permessi di soggiorno, dei rinnovi dei documenti, delle eredità transnazionali e non solo). Si tratta di un'alleanza da studiare con molta attenzione e monitorare con altrettanta preparazione metodologica. In questo senso la rinnovata sensibilità e impegno della Questura di Latina su questo tema può aiutare nella direzione del contrasto al fenomeno. Senza però la riformulazione del sistema formale-informale del mercato del lavoro rischiamo di fallire drammaticamente.

 
Qual è il vostro operato come associazione?

Operiamo in varie direzioni. In primis studiando il fenomeno in modo estremamente professionale, tanto da essere andati più volte in Punjab per approfondire gli studi, indagare il contesto di origine, discuterne con i soggetti responsabili a partire dalle istituzioni locali e docenti universitari. Poi organizzando iniziative territoriali a partire dal progetto Bella Farnia, organizzato insieme alla Regione Lazio e conclusosi purtroppo nel mese di luglio 2015, avente lo scopo di organizzare lezioni di italiano e consulenza legale gratuita ai punjabi interessati. Infine ci siamo costituti parte civile nel processo in corso a Latina, insieme alla Flai-CGIL, contro un imprenditore agricolo del sud pontino accusato di falsità documentali. Quest'ultimo, infatti, riceveva da ogni suo lavoratore punjabi circa 1000 euro in cambio di documenti falsi necessari per il rinnovo del permesso di soggiorno. Una pratica diffusa che rientra nel complesso di speculazioni organizzate sulle spalle dei braccianti indiani pontini.